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Lo Spielberg d’oriente?

Lo Spielberg d'oriente?

«Tsui Hark è lo Spielberg d’Oriente»: questa è la frase più propagandata nelle settimane precedenti la Mostra del cinema di Venezia. Seven swords, la sua ultima fatica che ha avuto l’arduo compito di aprire questa edizione della Biennale, non ha deluso le attese, anche se dopo la visione da “capolavoro annunciato” l’opinione pubblica non è volata entusiasticamente a proclamarlo “capolavoro assoluto”.

La tematica del film, la costruzione della storia e le straordinarie coreografie dei combattimenti porterebbero a dare un giudizio alto, sulla nostra scala da uno a dieci direi sette. Lo spunto politico di fondo, molto attuale, che porta a riflettere sulle condizioni illiberali nelle quali sono costrette molte popolazioni farebbe lieviatare il voto addirittura fino a un otto. Ma pensando più attentamente alla pellicola e alla sua storia, non si possono togliere due punti al voto finale che finisce così per fermarsi mestamente ad una sufficienza.

Perché un crollo così drastico? E’ colpa della pubblicità che ha preceduto l’opera, con autentiche leggende metropolitane che narravano di un set cinematografico sempre aperto, diviso in tre troupe diverse che lavoravano sei ore consecutive, una dopo l’altra sul modello fordiano della catena di montaggio.
Ma la leggenda migliore riguarda senza dubbio lo stesso regista, che pare non dormisse mai durante le riprese, dividendosi tra le varie location.

Con questo non voglio neutralizzare lo sforzo produttivo certamente importante, ma mi viene da pensare che oggettivamente il film non mostra nulla di più complesso di altre opere di cappa e spada recenti (vedi gli ultimi due Zhang Yimou).

Mesi e mesi di riprese sinceramente non hanno reso il film migliore di molti altri, e questo sottolinea quindi come Tzui Hark sebbene sia un grande regista (meravigliosa ad esempio la direzione del combattimento tra i muri) ma non è il simbolo (come invece è Spielberg) di un’industria cinematografica sempre più fiorente come quella cinese.

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