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cultura dell'immagine e della parola

Hey! Hey! Hey!

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Tempi moderni
Per cominciare dalla fine, è il caso di dire che le buone intenzioni c’erano tutte e, se si aggiunge l’omaggio dignitoso e malinconico all’ispiratore del personaggio di Albertone (Albert Robertson), che chiude la pellicola, non solo erano buone ma persino onorevoli. Così la penna di papà Bill (Bill Cosby) si è rimessa in moto a sceneggiare il ritorno di quel ragazzone che nel 1972 fece la sua prima comparsa tra i copertoni di una discarica, mai troppo stretta per lui e i Cosby Kids (Fat Albert and the Cosby Kids, 1972-84). E se il degrado, la povertà e il ghetto venivano trattati con estrema naturalezza, non mancava mai il proposito di educare il giovane pubblico alla possibilità che esistessero emozioni e sentimenti autentici, non mercificabili. Il perbenismo dunque c’era ma, come la stazza di Albertone, finiva col non pesare troppo nemmeno quando, in chiusura di puntata, Cosby in persona riassumeva, con una mimica assai più espressiva di un cartoon, la morale della favola.
Arriviamo così ai giorni nostri, lo spirito del ghetto c’è ancora, così come la povertà e la miseria, ma i ritmi sono cambiati: ci sono l’hip hop, i cellulari, le firme e gli status quo. Calato in questo vorticoso presente persino il sorriso etereo di Albertone finisce per spegnersi rivelando, fin dalle prime battute, una totale asintonia con la protagonista femminile (Kyla Pratt). Di fatto i due personaggi procedono su due binari paralleli, fatta eccezione per i banali punti di snodo imposti dal copione. La trama non riesce a decollare dal momento che viene a mancare la funzione di Albert e dei Cosby Kids, che non trovano un loro spazio d’azione e rimangono solo una mesta caricatura di se stessi.

Realtà-Fantasia 1-0
Quello che lo spettatore avverte da subito è l’inadeguatezza dei personaggi che pur non invecchiando rimangono, per così dire, indietro coi tempi. Possibile soluzione poteva essere una caratterizzazione che contemplasse capacità particolari attinte, perché no, dalla magia, ma questo avrebbe comportato uno stravolgimento, evidentemente non voluto, dei personaggi. Di fatto, spogliati di qualsiasi connotazione surreale, sembrano solo un gruppo di svitati col pallino per l’old style che, proprio perché emarginati dal contesto reale, non riescono a dar forza alle loro azioni. Così, invece di piegare la realtà a suon di ottimismo, vengono loro stessi piegati, rimanendo vittima di quei problemi che dovrebbero invece risolvere. Questa inconsistenza di fondo trova il suo compimento nelle figure dei cosiddetti antagonisti: due personaggi evanescenti e molto poco credibili, ma d’altronde unica possibile controparte che non mettesse in crisi il già vacillante impianto della trama.
L’effetto è quello di intristire una favola che nemmeno il lieto fine ripaga dello smacco subito da un presente che cinicamente rigetta la fantasia che non lo diverte.
Cito infine il banale tentativo, a scopo puramente pubblicitario, di vagheggiare nel titolo la pellicola, ben più riuscita, Il mio grosso grasso matrimonio greco (My big fat greek wedding, Joel Zwick, 2002) diretta peraltro dallo stesso regista.

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