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Storia di un padre lontano

Storia di un padre lontano

L’architetto e padre Louis I. Kahn di Caterina Lunghi ******

My architect è il percorso di un figlio alla scoperta di un padre che non ha mai conosciuto a fondo. Un padre che morì quando lui aveva appena undici anni, che non visse mai con la sua famiglia ma si limitò a vederla di tanto in tanto tornando poi nello studio dove lavorava e dormiva. Questo padre è Louis I. Kahn: l’architetto ebreo dal volto sfigurato per un incidente, emigrato ai primi del novecento a Philadelhia dall’Estonia, che, pensando all’eternità dei monumenti dell’antica Roma, progettò e realizzò opere architettoniche senza tempo come il Salk Institute di La Jolla, il Kimbell Museum of Art o il Capital Complex di Dhaka in Bangladesh. Un uomo misterioso che aveva contemporaneamente tre donne con tre figli: una moglie ufficiale, la mamma di Nathaniel e ancora un’altra compagna. Ma soprattutto un uomo che amava la sua professione. Una figura affascinante piena di luci e ombre, un vita intensa e dedita al lavoro suggellata dalla morte a settantatre anni per arresto cardiaco in una toilette della Penn Station di New York: una fine orribile ma coerente con il suo spirito nomade e indipendente.

Proprio dal racconto di questa morte inizia il documentario che, come in Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941) per il magnate della stampa Charles Foster Kane, è un viaggio nel tempo che cerca di ricucire la vita privata oltre quella pubblica e già nota di Louis Kahn. Una biografia non lineare ma costruita su continui salti temporali e rimandi, che scava nel passato di questo padre attraverso vecchi filmati conservati al MoMA, lunghe inquadrature delle opere, interviste ad amici, testimonianze di collaboratori e altri famosi architetti (Philip Johnson e IM Pei, Frank O. Gehry) intrecciate a confidenze della moglie, delle sue due altre compagne e delle sorellastre di Nathaniel. My architect alterna momenti e immagini ufficiali ad altri più intimi che fanno forse fin troppa leva sull’emozione e la commozione, restituendoci comunque un ritratto completo e ricco di questo architetto e uomo carismatico e geniale.

Venticinque anni dopo la scomparsa di Louis, Nathaniel Kahn realizza questo film, che ha richiesto cinque anni di lavoro. Va alla scoperta del padre, mosso dal desiderio di risarcire la sua perdita e di conoscerlo finalmente anche tramite la comprensione della sua opera e l’elaborazione pubblica del lutto con il suo apprezzamento come figura pubblica: restano per lui il ricordo del grande architetto e la testimonianza di quello che è stato attraverso la sua opera. My architect è quindi il viaggio personale e doloroso di un figlio che cerca il proprio padre, ma anche un prezioso saggio di architettura che, in un modo comprensibile a tutti, riesce a interessare un pubblico ampio ed eterogeneo appassionandolo.

Né arte né parte di Carlo Prevosti ****

My architect è un documentario che svela la vita e le opere del celebre architetto Louis Kahn, attraverso un’indagine investigativa che per facile assonanza può essere accostata a quella di Quarto Potere, poiché entrambe le storie ricostruiscono la figura di un uomo profondamente enigmatico partendo dalle rispettive morti.

Mutuando una definizione di Bill Nichols, possiamo invece definire il film di Nathaniel Kahn come una forma particolare di documentario partecipativo/interattivo, ovvero un lavoro che richiede al ricercatore di entrare direttamente a contatto con la realtà che intende osservare e che attribuisce molta importanza alle scelte che sono richieste al pubblico per valutare il grado della verità rappresentata; il modo partecipativo sottolinea la complessità della conoscenza del mondo enfatizzando i propri aspetti soggettivi e le dimensioni emotive. Il documentarista, in questo caso figlio del soggetto di cui si ricerca l’identità, si colloca in prima persona alla ricerca della verità su un padre/uomo che nemmeno in nome della sua parentela è stato in grado di conoscere. Lo spettatore si dovrebbe immedesimare nella figura del figlio bastardo (per ammissione dello stesso Nathaniel) ed essere emotivamente coinvolto nella (ri)scoperta dell’uomo. Nathaniel (a differenza di quanto ha fatto nel 2002 Alina Marazzi in Un’ora sola ti vorrei, opera assolutamente toccante) pretende di coinvolgere emotivamente un pubblico spesso distratto dalla descrizione, puntuale e precisa ma un po’ didattica e distaccata, dei risultati artistici del lavoro di architetto del padre (vero e proprio monumento dell’architettura moderna). Il risultato è un documentario ibrido che troppo agilmente scivola fra il didattico e il patetico (la scena della nave/palcoscenico, per citarne una), ben documentato ma non abbastanza per degli studenti di architettura, emotivamente toccante ma non commuovente per un pubblico più generico.

Curiosità
My Architect è stato presentato in occasione della settimana del Salone del Mobile di Milano ed è distribuito in formato DVD e Beta in programmazione pomeridiana, un canale nuovo e che potrebbe dare spazio a prodotti alternativi che difficilmente troverebbero spazio in un mercato tradizionale.

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