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Pugni di rabbia

Pugni di rabbia

La boxe è senza alcun dubbio lo sport più rappresentato dall’arte cinematografica, ma soprattutto è anche l’unico che ha permesso di creare capolavori imprescindibili e non relegabili al sottogenere del cinema sportivo. Il pugilato è una sorta di rappresentazione sportiva dell’archetipo del duello fra due uomini, lo scontro fisico tra corpi che si affrontano in una tensione fisco emotiva che difficilmente può essere raggiunta da altri sport. A questo si aggiungono molti elementi di contesto, come l’emersione da un substrato socio-culturale, il riscatto di una vita precedente ai limiti della delinquenza e il fascino che offre lo stesso mondo interno della boxe, fatto di incontri combinati, scommesse clandestine, rivalità e amicizie fraterne nate fra le umide mura di palestre scure dove versare sangue e sudore.

Clint Eastwood si lascia tentare da una storia all’apparenza facile, lui, un vecchio e consumato allenatore di pugili, viene avvicinato da una giovane ragazza che gli chiede di allenarlo, dimostrando di avere tanta rabbia in corpo da sfogare con l’attività agonistica. Il buon vecchio Clint, riottoso ad accettare una fragile fanciulla in un mondo prettamente maschile, accetterà sempre più di buon grado l’idea di allenare la ragazza fino a proiettarla sui ring per degli incontri veri. Fin qui la storia è già sentita, ricorda l’epopea di Girlfight (id., Karyn Kusama, 2000, piccolo film vincitore di una passata edizione di un Sundance) e ci si chiede per quale motivo Clint Eastwood abbia scelto di affrontare un tema del genere. Accade qualcosa nel film, che sarebbe un delitto anticipare in queste righe, per cui appare ovvio che il film che stiamo guardando non è un film “sportivo”, la boxe non è protagonista assoluta come non lo è il rapporto atleta/allenatore diventato pian piano un tenero (a suo modo) legame tra un padre che non ha più una famiglia e una figlia che non sente più di avere una famiglia. Legame che porterà ad estreme conseguenze il loro rapporto nel momento del bisogno.

Sono lontanissimi i tempi degli spaghetti western di Sergio Leone in cui a Clint venivano additate due sole espressioni, con e senza cappello. Con The Million Dollar Baby, una volta ancora dopo il meraviglioso Mystic River (id., 2003) il pistolero silenzioso dimostra di avere ancora delle pallottole in canna e (a differenza del miope protagonista de Gli Spietati) di avere ancora la capacità di fare centro ad ogni colpo. Se invecchiando Clint migliora così, allora lunga vita!

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