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L’equilibrio pericoloso di tre mani

L’equilibrio pericoloso di tre mani

Il filo pericoloso delle cose
La donna (come sempre), insieme al proprio corpo, è il fulcro dell’episodio di Antonioni. Cloe, alla ricerca del sentimento che possa dare libero sfogo alla passionalità erotica, è complementare a Linda, incarnazione del caos dionisiaco. Christopher abiterà questo caos ma l’incontro con la ragazza sarà pura illusione. Egli rimarrà infatti condannato al freddo della neve, mentre le due donne uniranno (metafisicamente) l’ombra dei propri corpi.
La storia viene raccontata attraverso piccoli eventi che tendono a creare atmosfere e suggestioni. Ma è proprio il racconto, o ciò che si evince e rimane di esso da tali atmosfere, che lascia perplessi. La banalità della sceneggiatura è evidente nei dialoghi, a volte forzati e ripetitivi. Forzate sembrano inoltre le interpretazioni, troppo poco convincenti, a eccezione della parte interpretata da Regina Nemni. Antonioni riemerge nella conclusione in cui, abbandonando ogni forma di parola, ci lascia con la danza libera dei due singoli corpi nudi in riva al mare, uniti dalla plongée finale.

Equilibrium
L’erotismo si fa dimensione onirica. Nell’episodio diretto da Soderbergh è la necessità di liberarsi da un sogno ricorrente, probabilmente dalla paura che questo sogno rappresenti un bisogno reale, a condurre un pubblicitario all’incontro con uno psicanalista. Quest’ultimo diventa satira dell’intera psicanalisi, intento nell’attirare l’attenzione (con aeroplani di carta!) di una misteriosa presenza che rimarrà perennemente in fuoricampo.
Il regista si appropria degli stilemi della commedia, delineando caricature interpretate (questa volta) in maniera ottima. Anche in questo caso si avverte una sfumatura di ripetitività nei dialoghi, riscontrabile nell’incontro paziente/dottore. Apprezzabile, invece, l’uso della fotografia, che rende la freddezza della seduta psicanalitica con un polveroso bianco e nero, per passare a un utilizzo catartico del blu, capace di riscaldare e di regalare passione (“eros” appunto) a una storia che si distacca forse un po’ troppo (in disequilibrio diremmo) dal tema centrale: l’erotismo.

La mano
Pura tattilità. Il mestiere del sarto si basa sulla conoscenza del corpo della donna e, soprattutto, sulle sensazioni che la donna provoca nell’universo maschile. Arrivato a questa conoscenza, il giovane apprendista disegnerà abiti meravigliosi per la donna che ama, ma che non potrà mai avere fisicamente, carnalmente. Sarà costretto a ricercare (immaginare) quella carne all’interno dell’ennesimo vestito fatto per lei.
L’erotismo penetra attraverso la gestualità delle mani. Attraverso le immagini dei movimenti che queste descrivono, Kar-Wai riesce a dare una profondità, inattingibile da qualsiasi utilizzo della parola, alla sfera erotica. La passionalità del corpo della donna (alla fine unico elemento comune dei tre episodi) viene dilatata nel tempo attraverso il ralenti, nel tentativo di bloccarla, di trattenerla il più a lungo possibile. Per questa carica emotiva che viene sprigionata è possibile affermare che l’episodio del regista di Hong-Kong è il più riuscito, quello che ha più chiaramente ma anche più sensibilmente “toccato” il tema dell’eros.

Se dell’erotismo l’inconcludente è il senso
La pura corporalità trascesa in diafana metafisica sensoriale, come fuoco e neve sciolti insieme.
Ai giorni d’oggi Eros è un prezioso esperimento di cinema tematico, una rivincita della raffinatezza sulla dilagante volgarità e un delicato rovesciamento del comune senso dell’erotismo, visto più come fragile aspirazione di verità dell’umano incomunicabile che come trascinante assoluta esperienza di desiderio inesauribile.
L’eros più che nell’incontro fisico o nell’abbandono incontenibile del piacere sessuale si scolpisce nella sua metafisica penetrazione, in quel suo liberarsi dalla dimensione carnale per trascendere in una passionalità fatta di altra materia.
È nell’immateriale sessualità tra corpo e ombra o nelle disperate geometrie d’amore della mano tremante di un sarto che si scoprono le forme di un erotismo diverso, più simile alla visione di un silenzio, a una pagina senza parole – vuoto come una finestra inutile da cui volano fallici aerei di carta, il cui oggetto del desiderio è sempre all’oscuro.
Eros, nella sua natura di opera dalle membra sconnesse, in questa sua missione affascinante sembra talvolta, come il personaggio dell’episodio di Antonioni, sbagliare strada per poi riprendere quella giusta. Peccato però che l’imprecisione sia stata vista e non sia stata omessa. Un’operazione metalinguistica che ci segnala la fallacità sapiente ricercata del suo cinema? Nulla si può escludere ma di certo si può credere che questi tre maestri si siano serviti proprio della stessa fallacità del cinema in generale per raccontare il paradossale senso dell’erotismo, verità di neve sparsa in mezzo alla potenza di fuoco della carnalità.

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