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cultura dell'immagine e della parola

Vangelo e Passione Pag. 3

Gibson o il Verbo si è fatto carne

Passando a Gibson, si può cominciare con il rilevare quanto, apparentemente, ricerchi una rappresentazione realistica della vicenda, solo incentrata sulla passione di Cristo, come denuncia il titolo.
Anche l’australiano ha usato dei set reali (e anche lui Matera), ma al contrario di Pasolini usa attori professionisti.
C’è poi il bluff filologico: lo scandalo annunciato dell’aramaico, fondamentale nell’essere il più vicino possibile alla realtà, che si scontra con una sceneggiatura che si basa sui racconti evangelici filtrati dagli scritti di una mistica vissuta nel XIX secolo.
Apparenza di aderenza realistica estrema, sostanza di totale fraintendimento del messaggio evangelico (occorre qui ricordare che la sceneggiatura di Pasolini è l’esatta trascrizione del Vangelo di Matteo).

Il problema più importante, però, risiede nella posizione assunta da Gibson nei confronti della vicenda.
Non è neanche così importante che abbia deciso di tralasciare completamente il senso profondo della figura del Cristo, legata ala suo messaggio di immensa rivoluzione.
A Gibson, cioè, non interessa né vedere il Cristo come rivoluzionario, né descriverne il portato spirituale (i due temi nevralgici dell’operazione pasoliniana), e neanche insistere sul profondo messaggio di Amore della parola del cristo ma rappresentarne la sofferenza come uomo, come Dio che si è fatto uomo.
Il punto allora è come mostrare la violenza e la sofferenza.
Senza dimenticare che si sta filmando, comunque, il Divino, il Sacro.
Ed è qui che casca Gibson, incarnando il peggio di un’intera cultura, come quella hollywoodiana.

Mi sembra di rilevare tre fraintendimenti alla base del totale fallimento con cui Gibson esprime il Sacro, il Divino nel suo film.
Il punto è che Gibson non solo parte da una posizione distante anni luce da Pasolini (è un cattolico convinto, in dubbio di fanatismo), ma incarna anche una posizione estetica agli antipodi.

In particolare come si accosta al Sacro, quindi all’indescrivibile, all’infilmabile?
Mostrando tutto o, almeno, il più possibile.
Eccoci dunque alle registrazioni anatomiche della violenza condotta sul Cristo, con i litri di sangue e la pelle scorticata degni di uno splatter di vent’anni fa.
Una scelta di cui diventa emblematica la sequenza della flagellazione.
Una sequenza che da un lato incarna la posizione estetica dell’intero film (mostrare la violenza, e quindi la sofferenza esclusivamente umana e corporale del figlio di Dio in modo insistito) e dall’altro denuncia il suo essere fuorviante nel suo tentativo di “documentarismo realistico” (I vangeli glissano molto velocemente sull’episodio e comunque nessun’uomo resisterebbe a una tale dose di violenza…ah dimenticavo è Dio, ma come non era la posizione opposta?).

La posizione morale di Gibson è, insomma, antitetica a quella di Pasolini: non rispetto da esterno (ateo) per una vicenda e una figura per cui si prova enorme fascino e nello stesso tempo si è consapevoli di non poterne cogilere il senso ultimo, ma da cattolico praticante e convinto, il regista di Braveheart (Id. Usa 1995)vuole raccontare e mostrare ciò che prima non si era mai voluto mostrare: l’enorme sofferenza del tutto fisica e umana a cui è stato sottoposto.
Anche esteticamente si arriva a due soluzioni antitetiche: dalla mdp distante, rigorosa e pudica di Pasolini si arriva a quella iperrealistica, insistita sui dettagli più rivoltanti tesa a intensificare nello spettatore il senso esclusivamente viscerale di pietà (e di odio per chi è fautore della sofferenza…) nei confronti del sofferente.

Due malintesi quindi di cui uno è legato al diverso accostarsi al Sacro e l’altro all’accostarsi alla violenza.
In entrambi i casi Gibson sceglie il mostrare, rispetto all’ellissi.
Quando, dal Rossellini di Roma città aperta (Id. Ita 1945) al Bechis di Garage Olimpo (Id. Arg/Ita 1999), si sa che il modo migliore per far riflettere sull’orrore della violenza la soluzione migliore sta proprio nel non mostrare, lasciando immaginare (arma ben più micidiale) allo spettatore.
Ma questo se si vuole creare un senso di totale e razionale opposizione a una violenza di questo tipo.
Se, al contrario, l’obiettivo è quello di suscitare nello spettatore l’odio più viscerale e primordiale che si scatena davanti a un’orribile e ingiusta barbarie, eccitando gli istinti più primitivi, allora forse l’operazione riesce.
Un’operazione che, vista in tale prospettiva, assume però delle connotazioni inquietanti o comunque è indice di un’incredibile poca sensibilità da parte dell’autore.
Non si dimentichi che il film scatena gli entusiasmi di molti paesi islamici del medioriente, a cui forse non è il momento più indicato per suscitare odii religiosi, già presenti, quando al contrario si dovrebbe cercare di crerae un dialogo e suscitare ben altri sentimenti.

Il discorso legato al coinvolgimento emotivo e all’identificazione che Gibson ricerca spasmodicamente (pensando e desiderando uno spettatore che abbandoni il controllo e la dimensione critica-razionale) è il centro nevralgico della differenza con Pasolini, uno snodo di cui la colonna sonora si fa emblematica dimostrazione.
Se Pasolini sceglie una colonna sonora non originale in cui Bach, Mozart, Webern ma anche spirituals e blues afroamericani, canti della tradizione italiana e canzoni patriottiche dell’Unione Sovietica accompagnano, commentano straordinariamente le immagini, caricandone ulteriormente il senso per uno spettatore attento, Gibson ricorre a delle (brutte) musiche originali, che nella migliore tradizione hollywoodiana enfatizzano in modo quasi impercettibile allo spettatore le sensazioni suscitate, accrescendone l’aspetto emozionale e viscerale della visione, tendendo al sincronismo tipico di un cinema di esclusivo coinvolgimento emotivo.
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Allargando il discorso l’intera operazione gibsoniana è figlia di una lunga tradizione cinematografica che si rivolge a un pubblico che vuole esclusivamente essere stimolato a livello emozionale-viscerale attraverso un coinvolgimento totale con un personaggio e con una vicenda, interessato al solo racconto.
In questa prospettiva il regista usa tutte le forme (anche le più abusate) tese a una superficiale e massima spettacolarizzazione (si veda a proposito l’uso del ralenti)
Pasolini, al contrario, fa e pensa un cinema che scateni, susciti una riflessione.
Non dimenticando l’aspetto emozionale che anzi è ulteriormente intensificato dall’apporto razionale.
Un cinema che emozioni e contemporaneamente faccia riflettere.

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