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A Personal Journey Through Martin Scorsese’s Movies parte IV

Un ennesimo capolavoro di Martin Scorsese apre questo decennio: Quei bravi ragazzi (in originale Goodfellas). Tratto dal romanzo-intervista di Nicholas Pileggi (che firma la sceneggiatura con il regista); racconta la trentennale carriera dell’irlandese Henry Hill (Ray Liotta) nel mondo della mafia tra rapine, omicidi, spaccio di droga, carcere, ma anche tra pranzi, matrimoni, amanti e figli.
Un ritorno alla sua Little Italy, certamente, ma con uno sguardo più distaccato e una sensibilità diversa; se nell’autobiografismo di “Mean Streats” i personaggi portavano con sé un dramma morale e spirituale, in questo film il ritratto della mafia ci vuole mostrare, più che altro, un mondo senza principi, edonista, in cui l’indifferenza alla violenza ne risalta l’efferatezza e la gratuità.
L’ascesa e la caduta del protagonista Herny Hill, materialista e vizioso, sono uno schiaffo all’American Dream e ai suoi valori: fin da piccolo egli dipsrezza il padre lavoratore onesto, la famiglia e l’istruzione per intraprendere la via della truffa e del guadagno facile.
Scorsese sembra giunto quasi ad un punto di non ritorno, al tradimento di quel mondo giovanile che aveva descritto all’inizio della sua carriera, e il dramma forse più grande e lacererante in “Goodfellas” sta appunto in questa sottesa critica nostalgica e morale.
Lo stile del film sfiora la cronaca documentaria, non senza i tratti caretteristici del cinema di Scorsese: voce narrante, musica come contrappunto narrativo, virtuosismo e grande libertà nel montaggio e nella narrazione che qui sono particolarmente innovativi.
Il regista, infatti, ci mostra spesso eventi paralleli che in apparenza sembrano slegati fra loro nel tempo e nello spazio ma che in fondo possiedono una forte analogia: ad esempio nel finale si alternano le immagini delle trattative di Hill con le autorità, dopo la sua decisione di testimoniare, e le retate della polizia con cui viene sgominata l’organizzazione.
Scorsese ricorre inoltre alla kubrickiana (vedi “Rapina a mano armata”) ripetizione apparente, in seguito clonata da Tarantino: mostrare in prospettive e tempi diversi un avvenimento già raccontato (ad esempio la scena iniziale con l’uccisione dell’uomo nel baule della macchina ritornerà all’interno del film).
Scorsese conferma il suo talento di straordinario narratore di storie, di esistenze e di drammi umani, coniugando a suo modo il coinvolgimento dello spettatore narrazione e la profondità dei contenuti.

L’anno successivo (1991) Scorsese accetta di dirigere un remake di un b-movie degli anni Sessanta: Cape fear-Il promontorio della paura. All’apparenza l’operazione potrebbe sembrare come un semplice divertimento del regista nel rivisitare un momento della storia del cinema americano, ma Scorsese, come suo solito, smonta le convenzioni di genere e trasforma la vicenda in un attacco spietato alle ipocrisie e ai falsi ideali della borghesia americana e in una riflessione poco consolatoria sul rapporto vittima-carnefice.
Il film, non è sicuramente tra i più personali e sentiti dal regista, ma alla fine si rivelerà uno dei suoi maggiori successi commerciali.
La vicenda narra il tentativo di vendetta di un uomo appena uscito di galera, Max Cady (De Niro); nei confronti del suo avvocato difensore (Nick Nolte) che ritiene colpevole in prima persona della sua condanna. L’uomo s’insinua all’interno del nucleo familiare dell’avvocato scatenandone le tensioni e le perversioni tenute a freno per troppo tempo: nessuno ne uscirà innocente, in primis la filglia adolescente (Juliette Lewis).
Scorsese ricorre a tecniche che potrebbero definirsi psichedeliche per sottolineare una vicenda torbida e ambigua: solarizzazioni, distorsioni, fermo immagine, zoom in grandangolo; com’è solito fare il regista newyorchese, ancora una ricerca e una sperimentazione nel registro narrativo e linguistico, mai fine a sè stessi e sempre con l’idea di veicolare un’idea, un contenuto.

Non si sottrae a questo spirito eclettico e di continuo cambiamento la succesiva opera di Scorsese, datata 1992: L’età dell’innocenza. Il film s’ispira all’omonimo romanzo del premio Pulitzer 1921 Edith Wharton e racconta l’impossibile storia d’amore nella New York del 1870 tra l’avvocato di belle speranze Newland Archer (Daniel Day-Lewis) e la contessa Olenska (Michelle Pfeiffer); cugina della promessa sposa (Winona Ryder) del primo.
Scorsese l’ha definito il suo film più violento e in effetti il regista, nell’impietosa logica dell’alta borghesia ottocentesca, intravede un inferno morale nella sua apparente perfezione e compostezza ben più terribile di quello di Mean Streats e Goodfellas. Il pessimismo di Scorsese, questa volta, si rivolge all’ottocento per mostrare le origini di quel perbenismo e di quell’ipocrisia che aveva attaccato in “Cape Fear”.
Un’incredibile coerenza ed unità tra contenuto e forma rendono il film straordinariamente ispirato: la perfezione delle scenografie, dei costumi e della ricostruzione degli ambienti accompagnano una regia molto “classica” fatta di lunghe carrellate che vanno a scoprire i saloni e le tavolate imbandite di questa società “imbalsamata”.
Una compostezza stilistica, quindi, che si scontra con l’impossibiltà del protagonista di liberarsi dalla gabbia in cui la società lo ha rinchiuso, schiacciato com’è dalle convenzioni sociali, facendo scaturire una tensione emotiva d’incredibile intensità: tutto sembra sempre sul punto di esplodere da un momento all’altro, ma niente scalfirà quell’universo di formalismi e false apparenze.

Nel 1995, con Casinò, Scorsese torna alla contemporaneità, torna a raccontare il mondo della malavita e ritrova De Niro e Joe Pesci dopo “Goodfellas”. Ancora una volta al centro della vicenda una vittima delle proprie debolezze e del mondo spietato che lo circonda: Sam “Asso” Rothstein (De Niro); giocatore d’azzardo, viene messo dalla mafia a capo di un importante casinò di Las Vegas, ma il suo tentativo di rifarsi una reputazione s’infrangerà contro l’instabilità della moglie (Sharon Stone, sorprendente) e l’ottusità da gangster spietato dell’amico Nicky (Joe Pesci).
Scorsese prosegue il suo viaggio in un mondo in cui ogni valore e principio sembrano sgretolarsi: in questa caso sembra anzi trionfare un non-valore, cioè il denaro, il dio-dollaro. L’ambientazione è Las Vegas, il luogo fittizio per eccellenza, senza radici nè tradizione.
Se in “Goodfellas” potevamo ancora scorgere un mondo meritocratico, dominato da un codice, qui sembra che il potere del denaro abbia demolito ogni valore, compresi l’amore e l’amicizia: da tutto ciò scaturisce la solitudine desolante di ogni personaggio.
Mai come ora Scorsese ci mostra la truculenza dell’azione mafiosa, toccando il limite della sopportabilità in alcune scene.
E mai come in questo film Scorsese aveva toccato vertici di tanto virtuosismo nella narrazione e nella creatività del linguaggio cinematografico: piani narrativi e temporali che si sovrappongo; una macchina da presa in continuo movimento per sottlolineare la frenesia di un mondo fatto di bluff e sotterfugi; voce narrante che si alterna a pezzi di musica rock; montaggio pirotecnico.
Il film più bello e potente di questo decennio e sicuramente uno tra i migliori di tutta la sua carriera.

Nel 1995 Scorsese riceve il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia e porta a termine un documentario di 225 minuti, A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies (Viaggio personale con Martin Scorsese attraverso il Cinema Americano): una sequenza di brani cinematografici ed interviste con la voce narrante dell’autore. E’ la traduzione in immagini di un modo di pensare il cinema senza pregiudizi e un controcampo della sua storia ufficiale che porta alla luce gemme sepolte e produzioni minori. Una dichiarazione d’amore di Scorsese nei confronti del cinema e di chi il cinema lo ha fatto.

Scorsese torna alla regia nel 1997 con Kundun, forse il suo film meno riuscito ed interessante degli anni ’90. E’ la storia della giovinezza del 14° Dalai Lama dal 1937, anno in cui viene riconosciuto come il Dio-Re, al 1959, quando è costretto a fuggire in India dopo l’attacco militare da parte della Cina maoista.
Si sono chiesti in molti che cosa abbia spinto il regista newyorchese ad intraprendere un’operazione di questo tipo. Il pubblico non ha risposto e la critica si è spaccata in due.
Il film è indubbiamente di alto livello, anche grazie al team di tecnici che ormai fanno squadra fissa con Scorsese (Thelma Schoonmaker straordinaria montatrice e Dante Ferretti alle scenografie per fare due nomi); ma sembra che il regista si sia concentrato troppo sulla figura di un Dalai Lama schiacciato da un mondo crudele e cinico ed abbia così perso di vista la tematica storico-politica di più ampio respiro.
Si è detto che il tentativo di rappresentare una società basata sulla vita spirituale che va a cozzare contro il materialismo di un mondo dominato dagli interessi economici (in questo caso la Cina di Mao) andava al di là della sensibiltà del regista più “cattolico” d’America cresciuto tra le strade di Little Italy.
Resta il fatto che Scorsese si dimostra anche in questo caso (non ci stuferemo mai di ripeterlo) un vero cineasta a 360 gradi.

Nel maggio 1998 Scorsese riceve la committenza da parte della holding italiana Mediaset con la quale può realizzare il sequel ideale al “Viaggio Personale”: questa volta il percorso del regista è attraverso la storia del cinema italiano, da Cabiria fino a Bertolucci.
La prima parte del documentario, con il titolo provvisorio di “Il dolce cinema” viene presentata alla Mostra del cinema di Venezia del 1999, ma il lavoro definitivo, Il mio viaggio in Italia, vedrà la luce solo nel 2002 con la presentazione al Festival di Cannes.
Non poteva che essere l’italo-americano Scorsese cresciuto guardando alla Tv i film del neorealismo a realizzare un progetto di questo tipo. La struttura è identica a quella del documentario sul cinema americano: montaggio di spezzoni e voce narrante del regista che ci guida attraverso questo percorso emozionale.

Gli anni ’90 si chiudono con un’ennesima svolta, un’ennesima prova dello spirito di sperimentatore instancabile di Martin Scorsese: Al [img4]di là della vita. I luoghi e i temi sono decisamente scorsesiani e ricordano “Taxi Driver”, ma lo stile e la messa in scena sono assolutamente innovativi.
Seguiamo tre notti di un paramedico su un’ambulanza (Nicolas Cage) nella New York notturna dei primi anni ’90. L’uomo è in crisi perché non riesce più a salvare nessuno, è perseguitato dal volto di una ragazza mortagli tra le braccia ed è completamente disorientato in un mondo caotico, violento e senza senso. Ritroverà un barlume di speranza in una ragazza tossicodipendente (Patricia Arquette) di cui s’innamora.
Il film è dominato da una galleria di volti e personaggi che affollano un mondo impazzito, trasformandolo in una sorta di viaggio onirico tra le strade della moetropoli: paramedici neonazisti, spacciatori e tossicodipendenti, barboni e rockstar da quattro soldi.
Gli stilemi di sempre non mancano (voce off, musica rock) ma il film è dominato da una vena di humor nero che si avvicina al gusto dei fratelli Coen e alla psichedelia di Terry Gillian, che prima d’ora non era sembrata appartenere al cinema di Scorsese.
Per il regista, questo humor, diventa un modo per raccontare la civiltà dell’indifferenza che caratterizza i nostri giorni, per raccontarci un mondo dove non c’è più la mafia a regolare i conti ma gangster-ragazzini che si fanno la guerra e dove perdere la sensibilità di fronte alla morte e alla tragedia sembra diventata una tecnica di sopravvivenza.

Per concludere, e riallacciarci a quanto detto in apertura, possiamo affermare che ripercorrere le tappe della carriera di Scorsese vuol dire anche affrontare il carattere, in un certo modo “schizofrenico”, dell’arte (ed in particolare quella cinematografica) americana dal dopoguerra ad oggi: quel suo coniugare la matrice industriale-economica a quella culturale-artigianale.
Un equilibrio precario, certamente, che ha fatto molte “vittime”, ma in cui Scorsese sembra sentirsi a suo agio meglio di chiunque altro, portando avanti sempre con coerenza una personalissima idea di cinema e di arte.
Scorsese ci appare come uno degli ultimi cineasti “sopravvissuti” ancora in grado di riuscire a dire cose importanti, a volte scomode e in un modo non affatto banale ad un vasto pubblico, tenendo viva una concezione di cinema come specchio e “riflessione corale” sul mondo e sulla società che a tuttoggi sembra ormai sulla via del tramonto.

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