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…. Liberaci da tutte le madri

.... Liberaci da tutte le madri

“White Oleander” è il racconto di un viaggio a ritroso nella propria vita che Astrid (l’esordiente Alison Lohman); adolescente californiana inquieta, affronta per superare la confusione affettiva di cui è vittima. La ragazza, abbandonata dal padre quando aveva sei mesi, vive con la madre Ingrid (Michelle Pfeiffer); un’artista di successo che ha educato la figlia con durezza e cinismo condizionandola con la sua forte personalità. Astrid, una lolita dai lunghi capelli biondi e dal viso troppo truccato, fin dalle prime sequenze è braccata nervosamente dalla macchina da presa che nel corso del film le rimarrà costantemente accanto.

Quando la madre uccide il suo amante perché non sopporta un altro abbandono, per Astrid è l’inizio di un nomadismo forzato tra centri assistenziali e affidamento a realtà familiari devastate il cui peso grava interamente su donne fragili affiancate da “uomini fantasma”; un campionario sociale stereotipato, con personaggi oltre il limite del macchiettistico che ci obbliga a ricordare le recenti esperienze televisive del regista. La storia gradualmente si allontana dalle prime suggestive immagini quasi ieratiche delle due protagoniste tramutandosi in una soap opera scandita dai soliti eventi traumatici che ne scandiscono il (non) ritmo. Il film segue, attraverso stucchevoli duetti tra Ingrid e Astrid nel parlatorio della prigione, la progressiva emancipazione della ragazza dal giogo materno. La Pfeiffer è impeccabile nel trasmettere le ansie di una madre ossessiva, dominata dal potere della sua bellezza, che, resa cinica dalla vita, cova dentro di se la rabbia di essere diventata madre troppo presto. Nella prima parte del film l’attrice americana riesce a rendere vivo il senso distorto della protezione nutrito dalla donna verso la figlia, (“l’amore ti umilia, l’odio ti culla” le dice) ma la sua recitazione si ingessa, diventa autoreferenziale e la superdonna vichinga risulta priva di sfumature, il suo sguardo gelido non ci basta più. La sua bellezza rimane lontana dall’ipnotico e glaciale fascino della Deneuve dei primi film; è un peccato che Isabelle Huppert non sia bionda, forse con qualche lieve espressione del viso avrebbe arricchito il personaggio di Ingrid facendone emergere indizi di tormenti interiori e sicuramente avrebbe rifiutato con sdegno l’opportunità di redenzione finale offertogli dalla figlia. Il fiore bianco del titolo che Ingrid ha piantato in giardino è velenoso per il cuore e può essere coltivato anche “a fiore doppio”. Astrid però, non accetta più le ingerenze materne, si taglia i capelli, li colora di scuro e assume un look dark materializzando il rifiuto del bianco lucente così amato da Ingrid e purtroppo anche dal regista che tormenta la nostra visione con irritanti lampi di luce a tutto schermo. Nel frattempo l’apparente purezza di mamma-oleandro è minata da Starr (Robin Wright Penn) la prima donna ad avere Astrid in affidamento; ex alcolista ossessionata dalla religione fa battezzare la ragazza provocando la caduta di “gocce di sangue dell’agnello di Dio” sui petali immacolati del fiore. Il colpo di grazia arriva quando Astrid conosce l’affetto e la dolcezza grazie a Claire (Renèe Zellweger); insicura attricetta di film horror.

Il film, tratto dal bestseller di Janet Fitch, inaspettato successo di alcuni anni fa (in Italia edito da “Il Saggiatore”); si disperde in confuse digressioni a tutto campo sulla religione, sull’arte e sulla solitudine, senza contribuire ad aumentare le nostre conoscenze su tali argomenti “White Oleander” è stato definito un “Women film” ma non riteniamo sufficiente la presenza di protagoniste donne e “l’assenza” di . uomini per creare un’atmosfera femminile intrisa di magia, rarefatta e inaccessibile al sesso forte come quella che aleggiava ne “Il giardino delle vergini suicide” (Sofia Coppola, 2000). Un’occasione persa di sviluppare un soggetto interessante da cui è stata tratta una sceneggiatura piatta e pretenziosa. La regia, volutamente fredda e realistica, si rivela scomposta e incerta e la discontinuità narrativa non alimenta il mistero ma la noia “aiutata” da dialoghi deprimenti degni di un telefilm tv di fascia pomeridiana. Kosminsky non trova l’ispirazione per sviluppare il lato torbido e oscuro della storia ed esaltare il potere iconico dei volti delle attrici e, alla fine, l’immagine più intrigante rimane quella stampata sul manifesto.

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