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So chi si nasconde intorno a me? So chi si nasconde dentro di me?

So chi si nasconde intorno a me? So chi si nasconde dentro di me?

Dieci minuti di apnea. Alberi e bambini che corrono in corridoi di mura, in corridoi di alberi ed erba. Una lunga prospettiva di poliziotti, torce tra le mani, illuminano gli spettatori.
Continua l’apnea, già si sentono le bolle nel naso, il respiro docile passa l’ultima volta dai bronchioli mentre l’anidride carbonica rende tossici. Poi il buio. Si respira male ancora. I titoli di inizio: DARKNESS, e la luce, di colpo. Una famiglia in macchina.
Si può respirare, ma continuano dei flash sanguigni, immortali, legati da fili duri e spessi. La paura è subito, poi scompare.
Due i figli, di sesso opposto, due genitori tranquilli e contenti nella loro nuova casa in campagna. Arriva anche il nonno (un Giannini poco in forma); ma non piace. Si sente la sua presenza come chiodo tra incudine e martello. Lo si sente urlare nel ferro dei suoi capelli grigio buio.
Una famiglia come tante, con i propri problemi, una storia come tante, un film come tanti, ma la paura è scomparsa. Il buio non c’è più. Piove, piove ininterrottamente.
Il buio diventa una gioia continua, una paura ciclica, una sorte inviolabile.
Dormire svegliarsi dormire-paura svegliarsi vivere “non pensare-dormire-pensare”.
L’oppressione di non aver un secondo per riappacificarsi ad occhi chiusi, non poter spegnere il cervello neanche sul proprio letto: questo il primo morbo.
Ecco l’amore, ecco le prime turbe del padre (un shining dimensione cittadina, ma non troppo dichiaratamente citato, un vezzo piacevole); ecco che un uomo spia loro e spia una ad una le poltrone del cinema.
Ecco che non si sa il perché, ma si sente l’odore degli occhi dilatati, l’incubo di una paura familiare che è vicina a noi, e si riflette intorno al nero dei nostri sentimenti.
Conosco mio padre?
Conosco mia figlia?
Capisco mio figlio?
Disegna il più piccolo, perché non c’è più rapporto con il mondo familiare, ma solo con qualcosa che non si conosce, ma so che c’è.
Io non conosco mia moglie. Io non conosco mio marito. Io non so chi sia mia madre. Io non so chi sia mia sorella.
Il buio si allarga sempre di più, è una goccia di caffè in un cucchiaio di zucchero.
Il tremore delle poltrone si allarga pian piano, ma i cliché, allo stesso modo, non riescono a scomparire in questo piccolo, finto universo.
Arriva il ragazzo bravo (ma spaventosamente coglione); la madre intelligente (ma esageratamente al buio del proprio nervosismo); le violenze sul bambino (troppo vicine alla linea d’ombra dell’horror).
La linea della comprensione, di ogni piccolo sentimento ingrato, dell’odio che si può provare per la persona che ami, il piacere che si sente quando ami e tutto sembra così PERVERSO e complicato, talmente universale da cancellare il segmento del momento, quello che ti fa sentire non compreso da staccare il collo della persona che hai amato.
Nonostante i seimila difetti che si avvertono quando le luci del cinema si accendono,
nonostante le pesanti citazioni-scopiazzature, nonostante ci si senta presi in giro, ho percepito una certa lacerante paura: il terrore di sentirsi un uomo disgraziato in un paese che non conosco ancora, Spagna o America, qualsiasi modo in cui si possa chiamare la solitudine; l’incubo di vivere nella lacerazione di sentimenti talmente alti da sentire un grosso colpo subito dopo la caduta.
L’urlo di Shelley Duvall.

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