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Le donne di Tehran

Le donne di Tehran

Interno di automobile; dieci storie, sei donne. Lo spettatore si trova di fronte a loro, a osservarle dal basso, più o meno da dove si trova la leva del cambio. Non ha visione dell’esterno: può solo guardare il volto della guidatrice e della passeggera di turno. Ten è una finestra sulla condizione femminile nell’Iran odierno; a noi è dato vedere questo mondo di riflesso, sulle labbra e negli occhi di queste donne.

Dalla vecchia devota alla prostituta, dalla donna innamorata a quella disincantata, ogni direzione di comportamento è indicata; la donna iraniana acquista consapevolezza, si ribella, silenziosamente o con durezza, alla rigida società islamica, al ruolo subordinato in cui essa le relega. Tra esse c’è chi considera l’amore poco più che un’illusione, chi sceglie la strada non per disperazione ma per gran spregio del ruolo sociale cui sarebbe destinata normalmente, chi innamorata aspetta la decisione del proprio uomo. Anche la donna in apparenza più docile ha un gesto di ribellione: infrantesi le sue speranze matrimoniali si rasa i capelli. Questo gesto, lungi dal sembrare mortificante, suona come un’affermazione di libertà. Qualcosa si muove nella società iraniana.

Rovescio della medaglia, le conseguenze che questa emancipazione fa ricadere sui figli. Tema caro al regista, l’infanzia. Senza formulare alcun giudizio, Kiarostami mostra la realtà e le sue contraddizioni: le insidie dietro ogni angolo dello sviluppo umano. In tre diverse scene, il figlio della guidatrice è passeggero. Qualsiasi tentativo di dialogo tra i due sbocca inevitabilmente nell’ accusa che il bambino rivolge alla madre: voler gettare la colpa del divorzio sull’ex marito quando, al contrario, è stata lei ad andarsene. La libertà di scelta comporta delle conseguenze: e questo è nell’ordine delle cose. Ma è giusto tenerlo presente.

Questa mdp “nascosta” nell’abitacolo dell’auto, che indugia in lunghe inquadrature dei volti, accennando a un pigro campo-controcampo nei dialoghi, che non inquadra quasi mai il mondo esterno, fa pensare a un regista-spia-voyeur, che per documentare la realtà si è nascosto nel cruscotto dell’auto e da lì filma le persone, legato nei movimenti e quindi costretto ad una regia essenziale. Questo regista nascosto studia le reazioni del volto, non lesinando lungaggini e tempi morti, non preoccupandosi minimamente del ritmo della narrazione. Questo fa pensare più che a un film, a un documentario. E qui sta la forza del film, nonostante lo sbadiglio sia spesso in agguato.

Paradossalmente, più che nei dialoghi, più che nell’idea che lega e sorregge le dieci storie, trovo del fascino in Ten quando immagino questo regista curioso che, nottetempo, entra in un’automobile e a fatica, sacrificando il proprio corpo, si nasconde assieme alla sua mdp, e inosservato riprende i dialoghi delle donne che salgono in vettura; è scomodissimo, e cambia raramente inquadratura a causa delle braccia anchilosate.

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