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L’inferno sotto la Germania

L'inferno sotto la Germania

Alcuni film rappresentano visivamente il dolore. Altri sono dolore. Vi sono immersi dentro, come un bisturi che affonda nella carne viva della sofferenza. “Hanna Flanders” è in questo senso un grido silenzioso privo di speranza. La rappresentazione di un crollo. Un crollo politico, il muro di Berlino; un crollo umano, quello della protagonista. Il bianco e nero livido serve a mostrare ancora più impietosamente i segni della pena e della sofferenza sui volti straziati dei personaggi.
L’attrice Hannelore Helsner, bravissima anche se forse un po’ troppo istrionica, intrpreta un’intellettuale contraddittoria, forse anche mediocre. Predica il leninismo e critica, anzi insulta, la società dei consumi ma poi compra abiti firmati. L’amore e il sesso, mercenari o meno, sono degradazione e abbruttimento. Il fallimento, umano e politico, di Hanna è totale. Ma il regista, che si è ispirato alla reale vicenda di sua madre, non ci induce alla pietà. Proprio per questo spicca ancor di più la nullità umana di quasi tutti i personaggi. Forse qualche viso amico c’è ancora ma ormai Hanna è alla fine della sua strada. Segnata da un’attrazione incontenibile per l’autodistruzione. Attorno a lei tutti festeggiano e ciò sottolinea ulteriormente la sua solitudine senza fine. Non può non venire alla mente il dittico Wendersiano di “Il cielo sopra Berlino” e “Così lontano così vicino”: lì il muro era l’incomunicabilità tra gli uomini, il tutto immerso in un’atmosfera dolcemente fiabesca. Qui il crollo mette a nudo il marcio che si trova nei protagonisti, già prima presente, però opportunamente coperto, velato. Quanto alle fiabe Röhler non ne ha il tempo.
Lo stesso decadimento fisico di Hanna (“hai le tette mosce” le urla un ubriaco) mostra per analogia il decadimento del nazione. Ma ancora più putrida è la di lei anima. Ella stessa diventerà un muro inutile, decrepito, falso, sbagliato. Quasi uno scherzo di natura. Non le resterà che una cosa da fare: abbattersi.

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