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Veronesi – Gay: un’intesa senza forza

Veronesi - Gay: un'intesa senza forza

Non era facile trasporre sullo schermo l’ottimo e pluripremiato romanzo psicologico di Sandro Veronesi riuscendo a restituire quel doloroso e angosciante scavo nel passato di un uomo che vede sfaldarsi nel giro di pochi giorni le fondamenta su cui aveva costruito la sua vita: non era facile e forse non se ne sentiva nemmeno così tanto il bisogno. D’altro parere il regista Piergiorgio Gay (scuola Olmi) che ha voluto profondamente questo progetto, spostando l’ambientazione dalla Roma di piena estate alla Trieste invernale di sveviana memoria, ma rimanendo piuttosto fedele alla struttura narrativa e ai personaggi del romanzo.
Non era facile, si è detto, proprio per la natura introspettiva del romanzo, per il suo lento procedere verso lo scardinamento del mondo interiore del protagonista, elementi i quali, purtroppo, non risultano altrettanto intensi e credibili nel film.
Nella pellicola infatti tutto sembra scorrere in modo troppo lineare e meccanico: mancano dei veri momenti forti, dei punti di svolta decisivi, delle sequenze “forti” che ci permettano d’immedesimarci con il personaggio principale e di coinvolgerci nella vicenda. Probabilmente tutto ciò soprattuto a causa di una regia che non azzarda mai nulla, che non s’insinua mai nello scorrere degli eventi e che sembra rassegnarsi a far accadere gli avvenimenti più che a raccontarceli. Forse è una scelta stilistica, un tentativo di restituirci un clima di una vicenda drammatica tutta interiore (e a questo contribuisce una fotografia poco contrasta e poco luminosa di Luca Bigazzi) che non esplode mai completamente, ma che in fondo, comunque, fa pensare più ad una mancanza di stile che ad una scelta vera e propria.
Gli inserti in cui il protagonista dei romanzi di Gianni Orzan prende vita assumendo le sembianze dello scrittore bambino vorrebbero essere proiezioni in stile visionario della sua interiorità, ma risultano stonate e un po’ pretenziose e quindi rimangono sganciate dallo stile compassato del film.
Sergio Rubini non sembra riuscire a dare coerenza e vera consistenza al suo personaggio (tra l’altro non si capisce perché si è deciso di vestirlo e acconciarlo come se fosse uscito da un telefilm anni ’70); più riuscita sembra la prova di Bruno Ganz, anche se lo spessore che dovrebbere avere il suo personaggio alla fine non viene fuori completamente.
Il film non sembra quindi prendere una strada decisiva tra il dramma psicologico d’impronta pirandelliana (la scoperta delle maschere che tutti noi indossiamo e l’illusione di conscere chi ci sta intorno) più interiore e proiettato soprattuto verso il protagonista Orzan, e la vicenda di un uomo che si trova a dover rivedere il suo passato e a rivalutare completamente il rapporto che ha sempre avuto con il padre.
Forse il paragone con il romanzo non giova alla valutazione del film, ma il regista avrebbe almeno dovuto avere un po’ più di coraggio nel “trascrivere” in immagini una vicenda interiore poco rassicurante e talvolta angosciante (e viene in mente per forza di cose al lavoro fatto da Kubrick con Schnitzler…).

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