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cultura dell'immagine e della parola

In viaggio verso il nulla, insieme

In viaggio verso il nulla, insieme

Takeshi Kitano è in Giappone una sorta di uomo-prodigio: regista, attore, cabarettista, pittore, commentatore sportivo. Come se in Italia Roberto Benigni commentasse anche le partite di calcio alla televisione e nei suoi film infilasse dipinti e disegni di produzione propria. Eppure Kitano appare su pellicola l’esatto opposto dell’uomo di spettacolo: raramente ci fa sentire il suono della sua voce, così come poche volte egli infrange la maschera da samurai del suo volto (reso tale anche dalle cicatrici riportate in seguito ad un incidente motociclistico) per abbozzare un sorriso, o solo un tic nervoso.
Nel mondo cinematografico di Kitano non mancano mai alcuni elementi ricorrenti: la Yakuza, la terribile mafia giapponese, e la conseguente violenza; non mancano mai il tema del viaggio e l’immancabile momento dei “giochi sulla spiaggia”. L’umorismo è sempre presente, anche i momenti dolorosi sono alleggeriti da trovate comiche; comicità naif, tuttavia, che a noi occidentali può solo strappare qualche sorriso, proprio a causa della sua ingenuità. Eppure per i giapponesi deve essere diverso: e a questo proposito Kitano si lamentava, in un intervista, del fatto che lo spettatore occidentale che vede un suo film non ride mai quando dovrebbe, e ride invece quando non dovrebbe farlo. Già per questo dovremmo forse chiederci quanto è possibile, per noi così intrisi di cinema e cultura occidentali, apprezzare appieno, e comprendere, il cinema di un mondo così lontano dal nostro come quello orientale, e giapponese in particolare… un mondo tecnologicamente avanzato ma immerso, inzuppato di storia millenaria. E’ forse questa diversità che rende il cinema di Kitano così interessante, così originale? O è mera curiosità, modaiolo interesse pseudo-intellettuale? Io non credo: di intellettuale c’è poco in questo cinema; c’è violenza, che per alcuni è sempre un richiamo, ma c’è soprattutto poesia. E’ questa miscela di violenza e tenerezza, di bestialità e di poesia che rende il cinema di “Beat-Takeshi” (il terribile soprannome di Kitano) così interessante; di questa chiave di lettura Hana-bi è forse tra i suoi film l’esempio più illuminante. Di questo continuo oscillare tra brutalità e tenerezza è emblema il personaggio principale, Nishi-Kitano: senza pietà verso i mafiosi, verso i “cattivi”, è capace di rapinare una banca per ottenere il denaro necessario per portare la moglie morente a fare un viaggio. La prima parte del film è molto violenta, alcune scene quasi brutali, ma ecco poi che il viaggio inizia, e anche le scene più crude, che pure non cessano di presentarsi, si ridimensionano, diventano “isole” nel mare tranquillo, doloroso e silenzioso, del peregrinare di marito e moglie. Questi ultimi, entrambi consapevoli di non avere un futuro, si attaccano ostinatamente alla vita; non alla speranza, ma a quel poco che a loro rimane, quel poco che entrambi cercano disperatamente di allungare il più possibile: per amore, anche se l’unico gesto di tenerezza fra i due ci appare solo un attimo prima della loro fine.
Hana-bi ha vinto il Leone d’oro al festival del cinema di Venezia nel 1997; i successivi due film di Takeshi Kitano, “L’estate di Kikujiro” (Giappone 1999) e “Brother” (Usa 2000) sembrano sperimentare due direzioni tra loro opposte: poetico e scherzoso il primo, esageratamente violento il secondo: quest’ultimo, inoltre, è il primo impegno “americano” del regista, e forse ne paga lo scotto.
Hana-bi significa in giapponese “fiori di fuoco”: sono i fuochi artificiali che Nishi accende in cielo per fare divertire la moglie, ma sono anche i fiori che il suo amico Horibe dipinge per superare il dolore di avere perso tutto: fiori che diventano parti del corpo di animali, come il girasole che diventa la testa di un leone, o l’orchidea che diventa l’occhio di una balena. Tutti i dipinti che appaiono nel film sono opera di Kitano, e anch’essi, nella loro naiveté, possiedono un certo fascino.

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