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Vienna, anatre e amour fou

Vienna, anatre e amour fou


«La Storia della mia calvizie si sarebbe potuta chiamare anche Storia del talento sprecato o della mancanza di talento. Oppure Storia della mia mediocrità. [...] Di tutto ciò che mi manca, i capelli sono il male minore, ecco perché questa deliziosa parola, calvizie, mi è sembrata la migliore.»
Parola di Marek van der Jagt, indimenticabile protagonista (e autore) di questo spiazzante, disperato, divertente romanzo. Sorprendente, a partire dal titolo: di calvizie si parlerà molto poco. Essa è scelta ad emblema delle numerose mancanze del protagonista: talento appunto, dimensioni anatomiche, felicità. La perdita dei capelli coincide con l’inizio delle disillusioni: l’amour fou che Marek insegue come obiettivo della sua esistenza si rivela fonte continua di delusioni. Impegnato a rincorrere questo vagheggiato sconvolgimento dei sensi, il giovane non si accorge di un difetto della sua persona, piuttosto importante per reificare il fuoco che ispira i suoi passi: come annuncia una sera alla famiglia, durante la cena, «Ho il pene di un nano». In una Vienna descritta con pochi particolari, scelta più che altro per l’atmosfera che il suo stesso nome riesce ad evocare, assistiamo alle molto poco eroiche imprese di questo passionale esistenzialista, tanto ironico quanto commovente.
Il romanzo sovrappone continuamente i piani temporali, la narrazione non vuole saperne di star distesa ma come una pergamena continua ad arrotolarsi intorno ai ricordi, ai pensieri del protagonista. Tali pensieri si condensano in irresistibili massime di saggezza disincantata, una coscienza acquisita per sottrazione più che per arricchimento: «Una storia d’amore, avevo scoperto, era prima di tutto una strana faccenda silenziosa, che ti lasciava muto, in cerca di quell’unica parola che non avrebbe rovinato ogni cosa».
L’insensatezza è la (traballante) colonna su cui si appoggia Storia della mia calvizie, eletta a condizione umana fondamentale; in questo contesto è possibile anche iniziare un romanzo, partire per la tangente numerose volte, fare di un episodio la parte centrale e più consistente dell’intreccio, e a pagina 233 dichiarare: «Così ritorno [...] alla mia calvizie. Finalmente. Perché era questo il mio obiettivo. Ma i particolari secondari sono diventati le questioni principali e viceversa».
E tuttavia la storia si dipana solo in apparenza senza controllo: gli indizi riguardanti la morte della madre di Marek – figura stupenda, capace di far innamorare il lettore così come è solita far innamorare tutti gli uomini di Vienna – si rivelano solo nelle ultime pagine, a formare una sorta di “giallo” massimamente strampalato, tanto il delitto e la sua soluzione vengono addossati nello spazio di qualche pagina. A sottolineare ancora una volta la totale mancanza di senso della realtà, e soprattutto l’infondatezza di qualsiasi ricerca in tale direzione. Storia della mia calvizie è composto in una lingua precisa, esatta, efficace, la cui forza si rivela in particolare nella bellezza delle similitudini e delle analogie, davvero originali, sorprendenti: «E mi sfilò le mutande con la destrezza di un bracconiere che spella un coniglio». Merito è anche dell’ottima traduzione italiana di Franco Paris.

Chi è Marek van der Jagt. L’autore di Storia della mia calvizie è Arnon Grunberg, scrittore olandese famosissimo nel suo paese e tradotto anche in Italia (Lunedì blu e Comparse, entrambi pubblicati da Mondadori). Stanco dei favori tributatigli in patria, quasi per fare un esperimento, Grunberg ha pubblicato questo romanzo sotto pseudonimo, ottenendo grandissimo successo e vincendo per la seconda volta nella sua carriera il premio come miglior romanzo d’esordio in lingua nederlandese. Ma lo stile inconfondibile dell’opera lo ha presto smascherato.

Vai alla recensione di Gstaad 95-98 di Marek van der Jagt

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