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Intervista a Vittorio Moroni

Abbiamo incontrato per un’intervista Vittorio Moroni, regista italiano giunto alla seconda direzione, Le ferie di Licu. Un autore indipendente per un film maturo e importante.

Qual è la sua posizione circa la tradizione ancora in uso in molti paesi del mondo dei matrimoni combinati?

Sinceramente realizzando questo film ho immediatamente deciso di non offrirmi come figura giudicante. Chiaramente non volevo neanche essere un mero spettatore esterno. Più semplicemente mi interessava capire gli effetti di questi movimenti esistenziali, le loro ripercussioni. Non posso sinceramente asserire con sicurezza se è migliore la vita di Fancy nel villaggio rispetto a quella di Roma, però posso testimoniare la differenza umana della ragazza che ora è diventata molto più aggressiva e spregiudicata. E lo stesso Licu, dopo il matrimonio, ha modificato atteggiamento, forse in base anche alla rappresentazione del ruolo che sa di avere all’interno della comunità a cui appartiene.

In generale le riprese fatte in Bangladesh ha modificato il comportamento delle persone riprese? E quelle in Italia?

Le riprese in Bangladesh paradossalmente sono state quelle più semplici. Abbiamo deciso di risolvere molti dei problemi circa il condizionamento con degli espedienti tecnici: teleobiettivo e radio-microfoni, soprattutto, per non stare troppo addosso alle persone. La cosa buffa, però, è che molte delle persone incontrate percepivano la macchina da presa come una macchina fotografica e quindi si mettevano in posa per poi, poco dopo, ritornare a svolgere quello che stavano facendo spontaneamente. In Italia abbiamo adottato lo stesso atteggiamento: sarebbe stupido dire con certezza che non c’è stato condizionamento ma vi posso garantire che anche per le riprese di Fancy abbiamo ridotto al minimo i nostri rapporti con lei.

Qual è stata la reazione dei due protagonisti alla visione del film?

Sinceramente io avevo un po’ timore di mostrarglielo: due anni di vita in novanta minuti di film sono una rappresentazione che può provocare secondo me una reazione molto forte. Devo ammettere però che loro, vedendolo, si sono riconosciuti nel film. Buffamente Fany (la protagonista) aveva da ridire per certe scene che io avevo inserito ed in cui lei si vergognava di dire parole come fango o cavolo, parole che per noi non rappresentano espressioni molto volgari.[img4]

Questo film è anche e soprattutto un documentario, come mai hai deciso di non far parlare direttamente i due protagonisti?

Una volta iniziato il film mi ero dato due impegni: non usare né voice off né interviste. Personalmente ci tengo che l’autorappresentazione di un sentimento avvenga maggiormente con un’espressione evocata, con un gesto che sfugge piuttosto con delle parole che, magari, ingannano anche il senso di quello che dicono. E credo di esserci riuscito e di essere molto soddisfatto di questo risultato.

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