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Sotto questa Mole – 1 dicembre

una scena di <i>Catechism Cataclysm</i><br />di Todd RohalLo confesso padre, ho peccato. Ma sono fatto così.
Oggi in cartello erano previsti film attesissimi come The Descendants di Alexander Payne o, in concorso, il 50/50 di Jonathan Levine. File lunghe e ordinate, con quelli della Fox che imbustavano i cellulari dei giornalisti per evitare improbabili atti di pirateria mobile. Atmosfera seriosa e mainstream insomma, con tanto gossip su quanto Clooney sia invecchiato e cose del genere.
E io, padre, in tutto questo, poco professionalmente, continuavo a lacrimare dal ridere ripensando alla visione mattutina di una commedia senza pretese e perfino low-budget, che ha sbancato di risate e di applausi (gli unici che io ricordi in questa edizione) la sala stampa torinese.

D’altra parte Todd Rohal non è l’ultimo arrivato: già nel 2008 aveva vinto il premio della regia in concorso proprio qui a Torino con il suo lungometraggio di esordio The Guatemalan Handshake.
Per Festa Mobile in questi giorni è tornato a Torino presentando il suo nuovo lavoro, Catechism Cataclysm, che oscilla fra il demenziale e la narrazione on the road. Il protagonista, padre William è un prete che intrattiene con un catechismo fatto di storielle di fantasia prive di senso religioso, passa il tempo su youtube lasciando commenti ai video non-sense della rete e ha alle spalle un passato da musicista in gruppo rock cristiano.
Ecco, padre William non è solo un sacerdote umanizzato, di più: è la figura di un idiota totale , incapace di prendersi cura dei suoi fedeli come lo è di se stesso, ben lontano da rappresentare ogni elemento di virtuosa saggezza o di imperscrutabile religiosità. E già qui, nelle prime scene del film, ci si sbellica solo per questo affresco irreale.
Poco dopo arriva l’ordine di un superiore che lo costringe a prendersi una vacanza e ritrovare il senso di Dio: e sarà l’incontro con Jim, metallaro fallito e amico alla lontana del prete, che convincerà padre Wiliam a scegliere proprio lui come compagno di viaggio per il week-end vacanziero di cui sopra.

Tutto il film viaggia così, fra gag escatologiche, blasfemia a go-go e qualche interruzione semi-seria (come nella scena nel bagno, in cui il prete confessa di “non essere mai stato felice”). E terminerà con una virata surreale, un tocco horror satanista e metafisico che spiazzerà le cose (o semplicemente, le vanificherà, in modo ancora più grottesco). Con qualche debito dalle parti de Le mele di Adamo, ma anche, per quanto riguarda la connessione fra Dio e Metal, all’Alex de La Iglesias de El Dia de la Bestia, Catechism Cataclysm è un horror-comic-trip movie dirompente, senza il senso del pudore e della prudenza.
Un film, come dicono a Los Angeles, Funny or Die: sgangherato, apparentemente senza scopo, eppure, nella sua assurdità, mostruosamente coerente e riflessivo.

Raccolta la mascella da terra, e conscio che nulla sarà più come prima, mi appresto all’ultimo film in concorso: 50/50 di Jonathan Levine, il “cancer-movie” dell’anno, una darkcomedy che affronta con le risate (almeno nella prima parte) il dramma di Adam (Joseph Gordon-Levitt) alle prese con un raro tumore alla schiena la cui diagnosi è dicotomica: 50% di possibilità di farcela, 50% di non farcela. Sarà l’amico scemo e simpatico Kyle (Seth Rogen) e una terapista (viso-da-criceto Anna Kendrick) a rendergli la sfida con la malattia più piacevole.
Tutto condito con un’estetica decisamente mainstream, con impostazione classica e senza virtuosismi della Mdp, 50/50 funziona solo su alcune battute cine-citazioniste (Dexter, Patrick Swayze, Atto di Forza) e per la buona prova attoriale del cane Skeletron che declassa tutti gli altri interpreti (non è uno scherzo).

La seconda parte, che cerca di impreziosire il lato più serioso e perfino toccate (si, Levine tenta anche questo), naufraga fino ad arenarsi in un finale fin troppo scontato: con un altro finale forse avrebbe recuperato qualche punto in più per onestà e realismo, ma forse si sarebbe scoperto meno penosamente buonista come vuole invece essere.

E nemmeno The Descendants convince. Sarà che Alexander Payne è un bravo produttore ma come scrittore e regista lascia a desiderare; sarà che l’onnipresenza del sempre piacione Clooney penalizza tutto il film; sarà che in realtà, questa fantomatica ricerca delle radici hawaiane perdute si intravede solo nel finale, ritagliandosi solo un posticino nell’ennesima – e non nuovissima – rappresentazione della crisi dei valori coniugali e sociali del protagonista. Altro giro, altra passerella, insomma. Quelli della Fox possono riprendersi le bustine vuote senza nulla temere.

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