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London Boulevard: Criminali di un dio minore

Criminali di un dio minore

Il malinconico pessimismo che chiude le porte a ogni tentativo di redenzione pare essere una costante della Weltanschaung di William Monahan. Neoregista con una carriera di sceneggiatore alle spalle, Monahan si fa forte dell’esperienza maturata con The Departed (Martin Scorsese, 2006), di cui ha firmato il copione, per farne tesoro nella stesura di una storia, quella di London Boulevard, inevitabilmente in sottotono, in cui mantiene sempre un basso profilo. Ne risulta un noir patinato: quasi che un velo tristemente opaco sia calato sulle scene. Un velo opaco come opaca è la giustizia che regna nel microcosmo della South London governata dalla criminalità organizzata e dal bullismo violento. L’ineluttabilità del destino domina la scena quasi fosse una protagonista in carne e ossa: le sbarre iniziali del carcere dove ha scontato la pena Mitchel e la grata del tombino nella scena che precede i titoli di coda giocano su un rimando circolare e simbolico, senza soluzione di continuità. I ritmi, inizialmente dilatati, lasciano poi spazio al dinamico e intricato regolamento dei conti del secondo tempo, dove la pellicola acquista efficacia espressiva e narrativa. È qui che i personaggi vengono svelati per quello che sono, il loro ruolo viene definito e lo spettatore entra in empatia con il protagonista. La colonna sonora è parte integrante della storia, dominata dalla canzone Heart Full of Soul degli Yardbirds, che segna, nel suo frizzante intreccio di blues e pop rock, il turning point più importante del film, quello in cui Mitchel mette in atto il suo piano di giustizia e quindi di vendetta.

Come era successo per The Departed, anche per London Boulevard la sceneggiatura non è originale, essendo un adattamento del romanzo noir di Ken Bruen. La bravura di screenplayer di Monahan e un solido romanzo alla base fanno sì che il risultato sia un plot cinematografico intricato, con trame triangolari che legano un personaggio all’altro e una storia d’amore che, per quanto appena accennata, è espressione di quello stesso distacco e perseveranza incarnati dal protagonista, interpretato da un Colin Farrell sempre sul pezzo, sicuro di sè, sprezzante e poco loquace. Lo stesso non può dirsi di Keira Knightley, che con il frangione che le copre il volto pallido evoca più il clone di Non lasciarmi (Mark Romanek 2011), che la paparazzata attrice in clausura forzata, perché in rottura non solo col riluttante mondo dello spettacolo, ma anche con il mondo esterno in toto, in quanto sua diretta emanazione. Coinquilino e in qualche modo “dama di compagnia” di Charlotte è lo stravagante Jordan, impersonato con non-chalance dallo stesso Remus Lupin di Harry Potter, alias David Thewlis. La scelta del casting è azzeccata anche per il boss della malavita Ray Winstone/Gant, che non è descritto nel dettaglio, pur essendo ben caratterizzato: sue le battute migliori, con la tagline su episodi della sua infanzia a far suonare le campane di morte per chi ha di fronte. Ben Chaplin veste invece i panni dell’inaffidabile amico/collega di Mitchel, Billy, tipico stereotipo cinematografico dell’inglese di periferia, ignorante e zoticone.

In molti, sapendo chi è il regista di London Boulevard, vi vedranno rimandi e somiglianze con il magistrale film di Scorsese con Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson, ma non potranno che concludere che gli outskirt londinesi non reggono il paragone con la grande e irlandese Boston. Dopo tutto, il film di Monahan parla di una criminalità di basso rango, una criminalità di un dio minore, i cui ingranaggi incidono solo da lontano sul sistema della giustizia. Certo è che Mitchel, come Costigan, è un uomo rabbiosamente in cerca di riscatto, seppur su fronti distinti. Un character tormentato dalla ricerca di una giustizia che non c’è; un character per cui il pannello pubblicitario a LED con la foto di Charlotte funge da stella polare e meta della sua nuova missione; un character che, nella buia visione del mondo di Monahan, non può che essere vittima di un microcosmo di cui ha mal calcolato la potenza distruttiva.

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