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Il lutto universale, tra intimità e speranza sognata

Il lutto universale, tra intimità e speranza sognata

Congelati nell’elaborazione del lutto per la scomparsa del figlio di quattro anni, Becca e Howie si trovano a dover far fronte all’opposto meccanismo di rimozione dello stesso, in lei esasperato nel vano tentativo di dimostrarsi forte scivolando in un oblio auto-suggestionato, capace di rendere la protagonista (un’eccellente Nicole Kidman) entità isolata dal marito e dal mondo che la circonda, tra la cura del giardino come riempitivo di tempo per pensare e sfogo per la propria maternità dispersa, e l’eliminazione sistematica delle tracce fisiche del piccolo, dai vestiti alla memoria, come tragico tentativo di resetta mento emozionale. Per Howie invece (un ancor più sorprendente Aaron Eckhart) il lutto passa proprio dal ricordo, anche visivo nei filmati e nelle foto, quasi a voler disperatamente conservare la presenza del bambino attraverso la sua presenza passata.

Adattamento dell’omonima pièce teatrale di David Linsday-Abaire, vincitrice del Premio Pulitzer nel 2007, e in concorso all’ultimo festival del cinema di Roma, la pellicola dipinge l’universo privato e sociale della coppia, sfociante in sedute di terapia di gruppo e nel conseguente rapporto-spalla tra Howie e un’altra donna vittima anch’essa di un lutto famigliare, e nell’unica via di fuga, da parte di Becca, perpetrata attraverso il dialogo di Becca proprio con il giovane adolescente appassionato di fumetti, alla guida nel nefasto giorno. Distante dalle precedenti opere di Cameron Mitchell (come la tragi-comedy musicale Hedwig), è la dimensione psicologica e più privata ad essere, qui, al centro delle divagazioni letterarie e cinematografiche, laddove la gelida superficie cerebrale, tipica del tentativo di ricostruire a tavolino un equilibrio soppresso dalla vita, si trasforma in sentimentalismo e pulsioni contrastanti, meravigliosamente suggellate dagli scontri verbali dei coniugi, ad-hoc resi ancor più funesti ed iracondi, nella loro disperazione universale, da un girato “teatrale”, frenetico e realistico, in grado di suscitare empatia nel pubblico, in bilico, come i protagonisti, tra la ricerca di vie di fuga (anche artistiche, vedi la presenza del fumetto come scintilla per una redenzione intimistica) e moralismo di una società ancora troppo benpensante, dove la drammaturgia del testo originale regala discrezione a nascondere volti consumati dal dolore, parole taglienti e giustificabili e la speranza che, nonostante l’ineluttabilità della vita stessa, una qualsivoglia serenità, forse possa passare attraverso universi paralleli, anche se inesistenti.

Una Kidman anche produttrice del film, accompagnata da pochi, ma significativi protagonisti del cinema di oggi, e le nomination all’Oscar come miglior attrice, la risollevano ai fasti di La donna perfetta, dopo le troppo poco esaltanti performance in Nine e Australia, mentre Eckhart è perfetto co-protagonista, oltre le aspettative, già buone, suggerite dal nolaniano Il cavaliere oscuro. Dolore empatico e climax ascendente, per una delle pellicole più toccanti, e reali, degli ultimi anni.

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