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cultura dell'immagine e della parola

Bif&st 2011
Diario, giorno 4

Checco Zalone premiato da Nichi VendolaStamane decido di saltare la mia quotidiana capatina al teatro Kursaal e di dedicarmi completamente alla visione dei documentari. Inizio con El sicario – room 164 di Gianfranco Rosi, autobiografia di un killer al soldo dei narcos messicani. Si tratta di una storia forte, raccontata da un vero e proprio “professionista” con voce ferma e sicura, senza pentimenti se non nell’acmè finale. La freddezza e l’impassibilità dell’occhio della videocamera, che sembra volersi limitare a registrare una confessione tenuta in un’anonima camera d’albergo, corrisponde alla freddezza e impassibilità con cui il sicario parla della sua entrata nel cartello della droga, delle torture inflitte, della complicità delle forze dell’ordine e del potere politico. L’illegalità è una via presa da quest’uomo con consapevolezza e convinzione ma, per rimanere fedele a tale scelta, bisogna che egli ricorra alla droga, all’alcool, al fumo; bisogna che si abbruttisca per rimanere brutale.

Se con l’opera di Rosi ci si trova a guardare un film che mira ad una narrazione degli eventi secondo un punto di vista estremamente oggettivo, tanto che il regista sembra scomparire completamente e nessun punto di vista, nessuno sguardo, nessun giudizio intralcia la narrazione dei fatti (in questo caso costituiti dalla biografia del sicario); con il documentario di Paolo Pisanelli, Ju Tarramutu, vediamo una diversa interpretazione del medesimo genere cinematografico. È il regista stesso, nella presentazione del suo film, che afferma come questo sia nato a seguito del terremoto che ha completamente distrutto la città dell’Aquila. Ciò che ha spinto il regista è stato il forte desiderio di fare qualcosa, di realizzare un’opera che fosse un concreto impegno civile. Le immagini tristemente note delle case tagliate, delle macerie dimenticate, della rabbia degli abitanti (volti già ripresi, volti ormai familiari, volti di una protesta che non finisce) contrastano con le testimonianze del mercimonio che la politica ha fatto della tragedia di questa città e dei suoi abitanti. Come afferma un ragazzo, l’Aquila dopo il terremoto è diventato un enorme reality per appagare il voyeurismo sadico dei telespettatori, una immensa tribuna politica, sfruttata anche dai leader degli altri paesi. Perché questa città è stata violentata, non solo dal terremoto, ma anche da coloro che l’hanno ricostruita senza uno straccio di piano urbanistico; da coloro che hanno visto la tragedia altrui come una benedizione per le proprie tasche; da coloro che sulla città sventrata hanno fatto campagna elettorale. Il fondo si tocca quando agli abitanti che vogliono sgomberare il centro dell’Aquila dalle macerie vengono addirittura sequestrate le carriole: se c’è una cosa che abbonda in Italia è il ridicolo. Il film dovrebbe uscire nel mese di aprile: gli si prospetta sicuramente una serie di critiche volte a dimostrarne le basi comunistico-bolsceviche, quasi che l’indignazione sia un lusso che si può concedere solo l’Armata Rossa.

Per la sezione Opere prime, viene proiettato Il primo incarico di Giorgia Cecere, storia di una maestrina chiamata ad insegnare in un paesino arcaico, di contadini. Isabella Ragonese è il volto perfetto per il personaggio di Nena, una giovane donna forse ancora troppo bambina, persa dietro un amore che oltre la componente idealistica non cela che il nulla. Quando tale nulla esce allo scoperto, Nena si trova sola in un paese sperduto, dove l’unico suo coetaneo è il nipote del proprietario della scuola, con cui intreccia una relazione per dimenticare la precedente e che sposa per ripicca contro un destino che voleva diverso. Ma la maturità nel cuore di Nena avverrà proprio nel momento in cui comprenderà che il destino da lei sognato non era, infine, quello che poteva renderla felice. Splendidi sono i paesaggi ripresi da Giorgia Cecere: nella campagna immensa, sia come distensione che come solitudine, questa maestrina perde se stessa. Per poi ritrovarsi, in maniera del tutto inaspettata.

Voice over di Vetoslav Ovtcharov e Father di Pasquale Squitieri concludono la serata, serata in cui avviene la premiazione al regista Fabrizio Gifuni, secondo la giuria un attore completo e totale il cui talento, educazione e cultura offrono il senso di un lavoro unico, originale e desideroso tanto di sperimentare quanto di eccellere nella ricerca di storie e personaggi complessi. Il Premio numero 1 verrà invece consegnato domani a Gennaro Nunziante, Checco Zalone e Pietro Valsecchi, se non altro perché con i suoi film il comico barese fa opera di promozione turistica quasi quanto l’assessorato preposto.

È però con Voice over che desidero concludere il diario di questa quarta giornata qui al Bifest, candidato agli oscar nella categoria miglior film straniero. Come in Kolorádó Kid, la storia è ambientata nel pieno della guerra fredda, questa volta in Bulgaria. A differenza del film ungherese, in questo caso non si parla di lotta politica, bensì di un dramma privato che il potere politico, rappresentato dal funzionario statale e la sua consorte, crea e segue come se fosse un film di cui scrive il copione. Un copione che parla di una famiglia prima divisa e poi distrutta da un potere repressivo e ottuso. La moglie e il figlio di Anton Krastev, cameraman di talento, approfittano di un permesso di viaggio a Berlino ovest per non far più ritorno in patria. Il ricongiungimento della famiglia viene ostacolato non solo dalla macchina burocratica, ma anche dalla famiglia di Anton e, infine, da lui stesso. Assistiamo al progressivo sfilacciarsi dell’amore, ad una perdita, che nel cameraman coincide con la perdita della vista. La cecità è però ben lungi dall’essere qualcosa di meramente fisico: essa coincide con la fine dell’amore, con l’accettazione delle regole del sistema a cui Anton, troppo innamorato del suo lavoro, non si è mai ribellato, da cui non ha mai cercato di fuggire.

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