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cultura dell'immagine e della parola

L’immagine quale metafora della trascendenza dell’anima

L’immagine quale metafora della trascendenza dell’anima

La morte dei semplici, almeno apparentemente, non ha nulla di così eclatante da giustificare un film, perché la loro tragedia è inserita nel divenire della quotidianità, sino ad essere considerata evento comune nell’eterno moto circolare della vita. Nel momento in cui si prende coscienza di questo, però, ecco che la morte e la vita stessa acquistano un significato diverso e il loro mistero diventa quasi comprensibile perché insito nell’uomo, nel suo Io parte del Tutto.

Se la morte altro non è che un eterno ritorno in un ciclo infinito di passaggi (di stato, di vite, di mondi), lo stesso concetto di tragedia attribuitole è improprio e infatti non vi è dramma nella morte di Boonmee. Il trapasso di questo vecchio malato procede lentamente, scandito dal lavoro nei campi, le sedute di dialisi e, soprattutto, i colloqui con i fantasmi del figlio e della moglie, simboli di un sovrannaturale visto come naturale e reale. Proprio come la morte. Poiché quest’ultima non è che movimento, trasmigrazione dell’anima in un altro corpo e in un’altra storia, si capisce perché con estrema naturalezza Boonmee e sua cognata Jen siedano e parlino con Huay, moglie del vecchio agricoltore, e con Boonsong, figlio creduto scomparso (morto) e trasformatosi in una scimmia fantasma. Sia Huay che Boonsong sono esempi di due passaggi di stato, di dimensione, eventi che non annullano i contatti con i vivi e il loro mondo. Perché si tratta di realtà compenetrate e compenetrabili, simboleggiate dall’abbraccio tra Huay e Boonmee prima che quest’ultimo sia accompagnato alla caverna, ovvero il luogo dove la sua vita cesserà. Non vi è immagine più archetipica della caverna per simboleggiare la morte come passaggio: qui il regista recupera una delle metafore visive più arcaiche del mondo per mostrare la trasmigrazione tra mondi diversi, che non sono semplicemente quello dei vivi e quello dei morti, ma anche quello del passato e del futuro, rappresentati a loro volta dalla storia della principessa trasformatasi in pesce gatto (un altro passaggio di stato, di mondi) e dal sogno della città del domani.

Il ritmo lento della regia, le lunghe pause di silenzio (e, di contro, il prevalere dei rumori dell’ambiente naturale), la stessa recitazione degli attori, esalta la componente onirica del film di Weerasethakul, conferendogli un’atmosfera magica, magia da interpretare in senso immanente e non trascendentale, perché tali sono morte e vita, passato e futuro: eternamente presenti nel loro divenire ciclico. Film lirico e pregno di significato come una poesia simbolista, vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, straordinariamente distribuito in Italia: si potrebbe parlare di “magia” anche solo per quest’ultimo particolare.

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