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Servilliana

Servilliana

Toni Servillo è ormai un’icona del cinema italiano, su questo non c’è dubbio. Se abbiamo voglia di goderci almeno una grande interpretazione, al di là della qualità stessa del film, ci basta scegliere un titolo in cui compaia lui. Il suo ultimo personaggio, che è appunto l’anima stessa di tutta l’opera, è il mesto ma intrigante (come sempre) Gorbaciòf, cassiere del carcere di Poggioreale a Napoli, così soprannominato per via di una voglia rossa sulla fronte. La sua vita è scandita da poche cose: il sistematico furto di soldi ai carcerati (un “segreto di Pulcinella” di cui tutti sono in realtà a conoscenza), il poker spinto in cui li investe, un’attrazione per una giovane immigrata cinese, Lila, con la quale spera di poter cominciare una nuova vita, sebbene non riescano a comunicare.

La fascinazione che l’illegalità esercita sulla sua esistenza è in fondo l’unica cosa che gli conferisce un’identità, è in fondo un figuro squallido ma intelligente, con il cuore un po’ più buono del ricco avvocato con cui gioca (perfetto Geppy Gleijesees, mattatore del teatro italiano, qui nei panni di un pokerista senza scrupoli, avido e traffichino) e del padre di Lila, pronto a sanare i suoi debiti di gioco vendendo la bellissima figlia. Il suo percorso per uscire dall’immobile squallore si conclude scioccamente, per un errore inevitabile visto il contesto. Nessuna redenzione finale quindi, ma anche nessuna morale: il film procede in maniera talmente asciutta, in un colore cupo che sembra quasi un fosco bianco e nero, maniera pervasa dalla servilliana maniera di recitare. I dialoghi sono al minimo, per il resto, ci sono i silenzi, le pause, le camminate, le varie espressioni dell’attore casertano, una goduria agli occhi dei suoi fan (il film è stato molto apprezzato alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, inspiegabilmente fuori concorso). Questa interpretazione gli è valsa, tra la critica, addirittura un paragone con Chaplin. In effetti, questa “servilliana” mitiga le emozioni, che sono regolate al minimo, cosa che invece non è accaduta in altri film del regista napoletano (si pensi soprattutto a L’uomo di vetro).

Ad Incerti e allo scrittore De Silva (Einaudi) va il merito di aver ambientato la storia in una Napoli che avrebbe potuto essere una qualsiasi città ad ampio tasso di immigrazione, una Chinatown come le altre in cui è ancora più difficile uscire per strada ed incontrare qualcuno con cui parlare, border-line come i quartieri a rischio di tutta Italia. Un noir dei nostri tempi, sospeso in un non-luogo, tra Hong Kong, un retrobottega del Bronx e un palcoscenico napoletano, tutto ruotante intorno al suo attore principale. Al quale forse vanno lanciate nuove sfide.

Curiosità
Il regista napoletano ha mosso i suoi primi passi sul set come assistente alla regia per Pappi Corsicato in Libera e I buchi neri.

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