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L’inevitabile infelicità del reietto

Tutto inizia con la scoperta dell’esordiente Paolo Giordano, magnificato dai media e premiato con lo Strega nel 2008. Il suo romanzo deve il proprio successo alle tematiche forti, al marketing oculato (copertina accattivante e titolo azzeccato), alla scrittura scorrevole. Ma oltre alla buona idea di partenza non c’è sviluppo della trama né ci sono grandi spunti. Gli eventi si succedono, ma la storia è fossilizzata come lo sono i protagonisti. Il messaggio de La solitudine dei numeri primi è contenuto in una sola parola: sofferenza. Una sofferenza che non viene mai scalfita, tanto da risultare irreale. Il rapporto causa-effetto regola in maniera precisa ogni passaggio: dal trauma deriva il blocco psicologico, dalla delusione la chiusura. Non c’è riflessione, non c’è tentativo di comprensione: si affoga e basta. La vicenda è quella di due anime solitarie che cercano un po’ di respiro dal dolore che le affligge. Vivono la vita come una cura palliativa, imprigionati nella propria bolla di disperazione. Mattia porta su di sé la colpa per aver abbandonato la sorella ritardata quando aveva otto anni; Alice non ha mai accettato l’incidente che l’ha resa claudicante. La barriera che li separa l’uno dall’altra è invalicabile, perché senza autoaccettazione non ci può essere amore reciproco. Entrambi si muovono attraverso l’adolescenza e la giovinezza in una Torino appena accennata, cupa quanto i loro pensieri. Sulla carta, la certezza dell’infelicità è moltiplicata in una serie di situazioni temporalmente distanti ma concettualmente sovrapponibili. L’anoressia di lei e l’autolesionismo di lui sono due diverse manifestazioni di un unico disagio.

La mano di Saverio Costanzo dona invece umanità ai due alieni creati dal fisico piemontese, esaltando le peculiarità dei protagonisti e rendendoli più plausibili. Il regista, che è anche autore della sceneggiatura, ha operato delle scelte nette con l’intenzione di dare corposità alla trama. Non è infatti solo la forza descrittiva a rendere la pellicola un prodotto molto diverso dalla controparte letteraria, ma anche i numerosi tagli narrativi, che permettono di sviluppare in maniera più approfondita le scene centrali del film. Le omissioni si trasformano però in voragini nella seconda parte della pellicola, con conseguente disorientamento di chi non ha letto il libro. L’eccellente Rochwacher, interpreta un’imbranata ma tenace Alice prima della partenza di Mattia, che si tramuta in una ragazza visionaria e distrutta senza che vengano rivelati dettagli sul fallimento del suo matrimonio. La narrazione si fa più confusa e indugia sulla sofferenza della protagonista senza approfondirne le cause.

La grande svolta della pellicola risiede nella speranza che trapela in diversi punti del racconto e dalla sensazione che le due anime infelici si siano finalmente toccate e comprese. Costanzo abbatte così il pessimismo monolitico del romanzo, mostrando una forma più elaborata ed emotivamente più intensa del rapporto tra i due. L’operazione riesce però solo a metà, poiché la mancanza di ritmo della seconda parte del film e le reticenze narrative rendono meno chiaro il senso complessivo della storia. Un vero peccato, perché si è trattato di uno dei titoli italiani più interessanti in concorso al Festival di Venezia 2010.

La solitudine dei numeri primi, romanzo di Paolo Giordano, 2008
La solitudine dei numeri primi, film di Saverio Costanzo, 2010

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