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La sagra degli stereotipi

La sagra degli stereotipi

Bryan Murphy è ben conosciuto per il successo avuto con serie televisive come Nip&Tuck o Glee, o per il discusso Correndo con le forbici in mano. Nessuno si sarebbe quindi probabilmente aspettato questo polpettone hollywoodiano, che si maschera da film “spirituale”, cerca di parlare del viaggio come percorso alla ricerca di se stessi, ma si rivela soltanto una banale e ridicola americanata. La sceneggiatura scritta dallo stesso Murphy insieme a Jennifer Salt, non migliora la superficialità del romanzo da cui è tratto: il racconto autobiografico del viaggio spirituale tra Italia, India e Indonesia, fatto dalla scrittrice Liz Gilbert.

Inizialmente vediamo una Julia Roberts piangere depressa e insoddisfatta della vita, tra atmosfere tetre e piovose di una borghesissima New York. Quando conosce David (James Franco) si trasforma banalmente in un’angelica innamorata, con la luce che la colpisce direttamente creando una specie di aura attorno a lei. La camera la segue quasi impazzita al momento in cui decide di partire, seguendo forse anche il suo stato d’animo interiore. Ma questi trucchi registici si perdono durante il viaggio, in una lunga carrellata di luoghi comuni. In Italia i primissimi piani ritraggono tutte le pietanze possibili, ma è l’unico pregio di questa parte del film, perché i personaggi si rivelano uno peggio dell’altro. L’amico romano (Luca Argentero) sbaglia pure le banalità che insegna in latino, un altro amico si chiama di cognome Spaghetti, Roma stessa è dipinta come una città dove la gente non ha voglia di fare niente, non esiste l’acqua calda: la sagra degli stereotipi.

Lo stesso accade in India, dove la ricerca spirituale si risolve in una commistione di matrimoni tradizionali, sporcizia e frastuono urbano, con altri americani alla ricerca di se stessi. A Bali poi ritroviamo un Javier Bardem che finisce per perdere il suo fascino latino interpretando un piagnucolone brasiliano. Per non parlare dei mille vestiti diversi che inspiegabilmente Julia Roberts sfoggia ovunque, del doppiaggio ridicolo di tanti personaggi indiani, indonesiani o italiani, dello stile di vita così falsamente meditativo, e puramente sfarzoso. Inoltre se proviamo a impastare insieme il tutto, forse un’ora sarebbe stata accettabile, ma centoquaranta minuti sono decisamente soporiferi, o per chi non s’addormenta, un’agonia infinita.

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