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Il giallo della solitudine e della diversità

Il giallo della solitudine e della diversità

Fondamentalismo, fanatici religiosi, donne vestite con lunghi abiti neri: tutto ciò sembra essere metafora obbligata quando si parla di Iran, l’immagine mentale di un paese a noi lontano, fatto di minacce al genere umano e di incomprensibili versetti gridati di fronte alle telecamere. Proprio per questo, Asghar Farhadi coglie di sorpresa lo spettatore, che difficilmente si sarebbe aspettato di vedere, in un film iraniano, queste donne e questi uomini “moderni”, vestiti con gli abiti e con gli atteggiamenti di qualsiasi occidentale. Niente Corano sfoggiato a destra e a sinistra, niente barbe lunghe da profeta, niente politici deliranti, dunque, bensì un gruppo di amici che decidono di affittare una casa al mare per passare alcuni giorni di vacanza. Come potrebbero fare tutti. Come potremmo fare noi. Il regista gioca con la nostra percezione di un Iran vicino solo in quanto minaccia sempre dietro l’angolo, bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro, per mostrarci come il suo paese sia, in realtà, più “moderno” e “normale” di quello che immaginiamo e percepiamo. E questo ci sconvolge, incredibilmente, più dei proclami e delle rivolte studentesche soffocate nel sangue.

Proprio in questa “modernità” e “normalità” si inserisce Elly, personaggio attorno a cui ruota tutta la vicenda ma che rimane, sino alla fine, una anonima, una sconosciuta, di cui si ignora persino il cognome. Sebbene in apparenza lineare, in realtà la trama del film di Farhadi è molto più complicata, un vero e proprio giallo nel giallo in cui, al mistero della morte di questa ragazza, il cui corpo privo di vita verrà scoperto solo alla fine dopo una innumerevole serie di congetture, si somma al mistero della sua vita, una vita che gli amici cercano di ricostruire utilizzando brandelli di informazioni, ottenendo così conferma della sua anormalità, della sua diversità rispetto al gruppo. Elly, infatti, si dimostra diversa, corpo estraneo al gruppo, sin dal suo nome, vagamente anglosassone (sulla cui origine anche i suoi amici si interrogano), simbolo stesso della sua stranezza. Elly è il silenzio in una festa, l’adultera in un gruppo fatto di famigliole felici, la solitudine all’interno di una compagnia. Il suo sorriso malinconico, la sua ansia di andar via, appaiono tutti elementi fuori luogo in una vacanza, così come fuori luogo è lei, che salva un membro del gruppo dalla morte ma che, infine, proprio da quel gruppo è uccisa. Anche se involontariamente, perché in qualsiasi cultura la mancata omologazione, il mancato processo di aggregazione, determina la morte, soprattutto sociale. A tale morte Elly è condannata nel momento in cui Ahmad scopre che, in realtà, la ragazza a cui stava interessandosi era già fidanzata: tale morte non fa che precedere quella del corpo, il corpo di quella che per la cultura iraniana era ormai diventato quello di un’adultera.

Il film di Fahradi, dunque, è un giallo nel senso classico del termine, sebbene coloro che indagano siano anche gli artefici involontari del delitto. E non si tratta solo della scomparsa di un corpo, bensì di ciò di cui quel corpo era simbolo, ovvero di una voce fuori dal coro che quel coro, come le onde del mare, ha soffocato e reso silenziosa.

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