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Tanto fumo, niente arrosto

Tanto fumo, niente arrosto

I peggiori film indipendenti – spesso i più osannati dalla critica – sono quelli col dialogo ridotto ai minimi termini e l’azione quasi nulla. Subito dopo vengono quelli verbosi all’ennesima potenza, quasi uno stream of consciousness in formato audiovisivo. Sono lungometraggi che danno l’idea dei filmati fatti in casa, con un montaggio quasi assente, poca tecnica, dialoghi improvvisati, location limitate e poca azione. Certo, i mezzi (economici) a disposizione sono quelli che sono. Questi indie servono più che altro da tramite per dare visibilità e voce a un modo di vivere o di pensare fuori dagli schemi comuni e dalla bigotteria dominante. Humpday, che pure ha ricevuto qualche premio in una o due rassegne di cinema indipendente, fa parte di quest’ultima categoria.

Trattasi di un bromance che recupera alcuni elementi del più noioso Judd Apatow per costruire una storia di riconciliazione tra sesso etero e omo, tra ricordi e trasgressioni adolescenziali e responsabilità e doveri tipici del mondo adulto. Viene presa di mira, ma senza giudicarla, la vita matrimoniale, che limita la libertà personale (ma per libera scelta, come spiega a Ben la moglie) e che va quindi intrapresa coscienziosamente. Il titolo del film deriva dal nome di un festival pornografico amatoriale di Seattle, al termine del quale i filmini vengono bruciati. È proprio a questo festival che, prima per gioco e poi con serietà, Ben e il ritrovato amico Andrew vogliono partecipare con un filmato porno-artistico in cui mostrare, in qualità di attori e registi, la possibilità di un rapporto omosessuale tra due uomini etero. Chi veramente crede nel progetto, contro ogni aspettativa, è proprio Ben, inutilmente dissuaso da Andrew che teme per il matrimonio dell’amico. E, per l’ennesima volta, mentre l’uomo rimugina sul retaggio giovanile e anela alla trasgressione per sentirsi vivo, la donna si dimostra più matura all’interno della coppia, accettando le proprie responsabilità e mettendo da parte la voglia di evasione sessuale.

Maldestramente tradotto in Un mercoledì da sballo, Humpday è, sostanzialmente, una forma artistica di pacata sovversione. Pacata perché, dopotutto, non rinnega il modello familiare classico – per cui, però, bisogna essere portati – bensì lo integra con altre possibilità di vita in comune, destabilizzando le fondamenta del primo per testarne la solidità e per valutare, di conseguenza, la fattibilità delle alternative disponibili. La fotografia che viene scattata è quindi quella del matrimonio come istituzione aleatoria e convenzione asfissiante, il cui negativo, però, fa trasparire le zone di luce che si possono osservare solo da una posizione privilegiata: quella di chi sperimenta il “tradimento” in qualità di attante. Un consiglio: invece di vedere il film – per altro girato da una donna – passatevi una bella serata “solo uomini” con i vostri amici, dando libero sfogo ai vostri pensieri e togliendo i veli al vostro innato pudore. Il risultato sarà senza dubbio migliore e più sorprendente di quello rappresentato dal film.

Curiosità
Il film è stato girato in due settimane a Seattle e presentato al Sundance Film Festival. successi-vamente ha vinto il Premio della giuria della rivelazione Cartier al Festival del cinema americano di Deauville e il Premio John Cassavetes agli Independent Spirit Awards 2010.

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