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Prolissità e reticenza

Prolissità e reticenza

L’ultimo episodio della saga di successo giunge nelle sale già in odore di remake. Pare infatti che David Fincher stia lavorando alla versione hollywoodiana di Uomini che odiano le donne, la cui uscita sarebbe prevista per il dicembre 2011. Se la potenza dei mezzi e un budget più ampio potranno rendere più valida la trilogia sapremo dirlo solo in seguito. Nel frattempo, non si può nascondere il disappunto nell’osservare la parabola discendente dei tre film svedesi. Si è passati da un godibile giallo classico a un legal thriller farraginoso, con un fiacco action movie come tappa intermedia.

Le primissime immagini mostrano il ritrovamento di Zala, mezzo morto e ricoperto di sangue; si è poi catapultati in sala operatoria, dove si assiste alla scena un po’splatter della rimozione del proiettile dal cranio di Lisbeth. Difficile sospettare che queste siano le uniche scene incisive di tutta la pellicola (fatta eccezione per quella della sparapunti). Eppure le due ore e mezza di piattume seguenti non regalano alcun momento significativo. Come nel capitolo precedente, l’impianto da film tv riadattato in corsa al grande schermo rende monotono il racconto e spegne l’interesse dello spettatore più preparato. Il fatto che il terzo volume sia maggiormente incentrato sulle pratiche del giornalismo investigativo presuppone scelte stilistiche che non appesantiscano l’andamento della storia. Invece la noia domina il fiacco susseguirsi delle immagini, attraverso situazioni poco coinvolgenti indipendentemente dalle capacità degli interpreti. Mikael, vero protagonista di quest’opera conclusiva, non brilla per espressività ma pare meno un pesce lesso della sua collega Erika Berger (Lena Endre). Noomi Rapace è sempre ottima ma ha le ali tarpate dal ruolo poco attivo che ricopre in questa fase della vicenda. Buona è anche la prova di Teleborian, cattivo dalla personalità monoblocco quanto nel testo e passabile quella dell’avvocato Annika. Il mix finale è tutt’altro che esplosivo e non rischia neanche per un istante di suscitare immedesimazione del pubblico. Ciò va a danno dell’intento iniziale di Alfredson, deciso a evidenziare la lotta di Lisbeth per vendicare un’ingiustizia personale anziché a includere la sua storia in un contesto di traffici internazionali. A questa decisione è imputabile l’assenza di una contestualizzazione dei nuovi personaggi, che appaiono oscure pedine legate inspiegabilmente fra loro, oltre che privi di spessore psicologico. Manca una visione più ampia sui servizi segreti, se non sull’intera società svedese. Gli elementi in gioco sono quindi privi del collante che rendeva l’universo larssoniano un mosaico variegato e credibile e producono solo una gran confusione.

Alfredson adotta un’estetica sempre più dark, sottolineata dalle luci basse e dall’atmosfera fredda. Va in questa direzione anche il look sempre più estremo di Lisbeth, che diventa un’eroina cyberpunk al limite del fenomeno da baraccone. Sfugge invece alla concezione visuale del regista il ruolo principe di Stoccolma nell’opera del romanziere scandinavo: una città cupa, segretamente corrotta ma piena di vita e di una bellezza sconvolgente. Pochi fotogrammi mostrano svogliatamente alcuni stralci della capitale, sfuggenti e quasi posticci. L’eccesso di minutaggio rende ancora più ostica la visione di una pellicola già di per sé fiacca, rendendola un polpettone che ha ben poco a che fare con le brillanti analisi sociali dello scrittore e ancor meno con il coinvolgimento psicologico di un poliziesco tradizionale.

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