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cultura dell'immagine e della parola

La poesia della quotidianità

La poesia della quotidianità

All’interno del panorama cinematografico giapponese contemporaneo, articolato e spesso premiato in diverse rassegne internazionali – dai violenti Yakuza eiga (film gangster) di Takeshi Kitano ai film a sfondo erotico; dai jidai-geki (drammi in costume) ai J-horror, noti soprattutto per le puntuali rivisitazioni in chiave occidentale (The Ring, The Grudge ecc.), fino ai film di animazione (vedi Il Castello errante di Howl – Hayao Miyazaki, 2004) – Okuribito di Yōjirō Takita si ritaglia uno spazio a sé stante, al confine – verrebbe da dire – tra Oriente e Occidente. Sì, perché riesce a rendere universalmente fruibile ed eticamente accettabile un tema quasi intoccabile e visivamente inesprimibile – quello della morte, ma anche della rigenerazione – fornendo alla storia narrata una struttura narrativa aderente ai canoni hollywoodiani (non a caso gli Academy Awards gli hanno assegnato l’Oscar per miglior film straniero del 2009). Il regista non tarda a darcene prova, attraverso un prologo che sfoggia il disegno progettuale entro cui il racconto filmico sarà inquadrato: una storia di formazione con mentoring, associata al viaggio archetipico alla ricerca del padre e condita con tanto sottile humour e con ingredienti attentamente scremati da quel calderone astruso di riti cari alla cultura giapponese. Yōjirō Takita, dunque, punta subito su tutte le sue carte con nonchalance e cognizione di causa, mettendo sul tavolo un all-in che verrà ampiamente ripagato a fine mano – le due ore successive di film, la cui perfezione formale, stilistica e contenutistica colmerà appieno le aspettative generate nello spettatore.

Okuribito è una sorta di black comedy intimistica sul riscatto individuale, sull’interdipendenza tra vita e morte e sul legame tra vivi e defunti (incredibilmente toccanti le scene in cui i parenti riescono a sorridere grazie all’abilità del “mastro di cerimonie funebri” di rendere “vivo” il defunto attraverso il trucco), all’insegna di un circolo virtuoso per cui solo discernendo la morte si può affermare la vita. Componenti incisivi e strutturali della pellicola sono la musica, grande e indimenticabile protagonista con pezzi da brivido che includono l’Ave Maria di Bach, e la fotografia, che cattura le stagioni della campagna dei dintorni di Tokyo con delicatezza e fedeltà cromatica. Le note impresse sulle immagini fanno letteralmente vibrare le corde dell’anima in splendidi intermezzi di silenzio verbale che seguono il ritmo delle emozioni, dando allo spettatore il giusto lasso di tempo per assimilare in pieno le sensazioni generate dalla storia. Le prove attoriali – su tutte quelle del protagonista, l’ex pop-star Masahiro Motoki e del suo mentore, interpretato dall’impassibile veterano Tsutomo Yamazaki – testimoniano una sensibilità fuori dal comune, con interpretazioni capaci di trasmettere Emozione allo stato puro. Il rituale della preparazione del defunto da parte del nokanshi (colui che aiuta le famiglie ad affrontare la dipartita del proprio caro)è rappresentato alla stregua di un’arte, in cui contano non solo la tecnica, ma anche la grazia e la compostezza dei movimenti, tesi a ricomporre con professionalità e pĭetas la dignità del “soggetto artistico”, ovvero il “cadavere”. L’eleganza nei gesti degli attori si ripete nei movimenti di macchina, puliti, precisi e in un montaggio che calibra il peso di ogni singolo cut.

L’image system del film – nella terminologia di Robert McKee – è consistente e significativo e vanta un gioco di rimandi simbolici ben seminati e prontamente raccolti: il token della pietra, scambiata tra padre e figlio come “segno” dei sentimenti dell’uno verso l’altro, fa riaffiorare la memoria di un padre assente; lo stesso oggetto riappare in qualità di simbolo dell’amore del marito verso la moglie e infine, a chiusura del cerchio, viene passata dalla stretta del padre morto – la cui memoria è così riabilitata – al nascituro, ancora nel pancione della madre. Anche il violoncello, come sottolinea Masahiro Motoki in un’intervista, è una sorta di doppione di un corpo umano, per cui il “cadavere”, come prima lo strumento ad arco, funge da mezzo per la realizzazione professionale e la crescita spirituale del protagonista. L’acqua con cui viene purificato il cadavere, il fuoco della camera ardente che apre la porta per l’aldilà, il fato e la morte, che legano tutti gli esseri viventi dal polipo al salmone all’uomo stesso … tutto ritorna e fa ricordare allo spettatore che vita e morte sono indissolubili, onde per cui avere timore dell’ultima non porta vantaggio alla prima. Credenti o non credenti, abbiate rispetto per il nokanshi, perché da gran conoscitore della morte qual è, saprà insegnarvi ad apprezzare maggiormente la vita.

Curiosità
Il soggetto del film ha una doppia origine: l’esperienza personale dell’attore Masahiro Motoki a una cerimonia funebre in India e il saggio autobiografico di Aoki Shinmon Nōkanfu Nikk, sull’arte buddhista della preparazione dei defunti alla camera ardente. Da tener presente che nella Terra del Sol Levante la morte è un argomento tabù, sebbene ancora oggetto di cerimo-niosi rituali in alcune aree della provincia giapponese.

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