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cultura dell'immagine e della parola

La solitudine delle nevi nordiche

La solitudine delle nevi nordiche

Opera prima in ambito fiction del documentarista Rune Denstad Langlo, Nord è bianco, statico e di poche parole. Un classico film da cineforum, certo un po’ più vitale e brillante rispetto alla media. Più divertente, anche. Sicuramente dedicato a un pubblico relativamente giovane, tanto per i dialoghi, quanto per la colonna sonora (sebbene poco consistente). La storia è semplice: quella di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi che decide di riprendere in mano le redini della propria vita, assumendosi le proprie responsabilità con un viaggio che lo porterà verso il Nord norvegese, a Talmuk, dove vivono il figlioletto e la donna amata. Quel che importa al regista, com’è ovvio, è proprio l’esperienza del viaggio, come forma di conoscenza e presa di coscienza, allo stesso tempo. Ed è così che l’insicuro e paffuto Jomar incontra sulla sua strada diversi aiutanti, che simboleggiano, in progressione, ciascuno stadio della vita umana: dalla ragazzina dall’espressione vispa, al ragazzotto di campagna fuori dal mondo, fino all’anziano e saggio padre “pescatore”. Accecati dal riflesso del sole sul bianco della neve che tutta ammanta, il regista ci conduce, rispettivamente, dalla prima adolescenza – curiosa, sfrontata e sognatrice – attraverso la piena adolescenza – confusa, emotivamente instabile e disperatamente sola – fino alla vecchiaia, posata, saggia e imperscrutabile.

Le poche battute fanno sorridere; i personaggi sono piccole sagome; la musica movimenta i trasferimenti sulla neve. I movimenti di macchina si limitano a campi lunghi, close-up e qualche ripresa aerea. L’occhio del regista registra semplicemente i fatti, senza cercare inquadrature che producano una strategica reazione emotiva nel pubblico. I paesaggi sono nascosti sotto la coltre di neve che nasconde le inestimabili ricchezze paesaggistiche della Norvegia. La neve ci parla della solitudine di un popolo di un milione di abitanti distribuito su una superficie che è il triplo dell’Italia. Il bianco diventa metafora, dunque, di una condizione esistenziale di sospensione tra due rive: quella della campagna e quella della città; quella dell’isolamento psicologico e quella del fermento culturale; quella della vita e quella della morte; quella, infine, della rinuncia rassegnata alla dignità che avvista in extremis, sull’altra sponda, la seconda chance, una possibilità di riscatto. La neve è onnipresente, ma è al contempo minacciata: minacciata da due incendi che illuminano la notte, allorché la casa del protagonista e il rifugio notturno lungo la strada prendono incidentalmente fuoco, destabilizzando il mondo di Jomar, in cui si trova chiuso come in una gabbia. La neve è minacciata poi, definitivamente, dal sole e dall’arrivo della primavera, che la scioglie non per un istante, ma per mesi. E quando la neve si scioglie e la primavera arriva, la vita vecchia muore e si rinasce a nuova vita, col protagonista che tocca l’agognata riva.

Molti sono gli spunti di riflessione che questo film offre, ma un interrogativo indispettito rimane comunque aperto: perché il cinema, che per definizione è immagine in movimento e incontro multimediale dei mezzi di comunicazione, per sembrare più serio, deve venir meno a questi presupposti e rinunciare alla parola – sconfitta dal silenzio; all’intreccio – battuto da un semplice accostamento di situazioni; alla regia – sostituita dal puro obbiettivo della macchina da presa? E per quanto riguarda l’intrattenimento e il coinvolgimento spettatoriale, fine ultimo del mezzo cinematografico, dove possono essi approdare se l’ultima immagine che rimane negli occhi del pubblico è un campo lunghissimo in cui il padre che raggiunge finalmente il mai conosciuto figlioletto si esauriscono in due puntini neri sullo sfondo abbagliante della neve?

Curiosità
Nord ha vinto quattro premi in diversi festival: il premio alla regia al Festival di Berlino, al Tribeca Film Festival e al Transilvania International Film festival; il premio al migliore attore non protagonista al norvegese Amanda Awards. Il film è stato, a ragione o a torto, paragonato al cult di David Lynch Una storia vera (The Straight Story,1999), con cui presenta molti parallelismi: il trattore è qui sostituito dalla motoslitta, mentre le distese del sud degli Stati Uniti lasciano il posto a quelle innevate della Norvegia.

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