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cultura dell'immagine e della parola

Torino Film Festival
Diario, 19 novembre

Una scena di BronsonIl TFF fa esplodere gli ultimi fuochi. Domani sera è prevista la cerimonia di premiazione al termine dell’ultimo giorno di proiezioni. Poi domenica repliche dei film vincitori delle rispettive sezioni. Nel frattempo il TFF ha visto crescere sempre più la partecipazione in questa seconda settimana. Ieri gran folla per la proiezione delle versione restaurata di Scarpette rosse, omaggio alla coppia Michael Powell-Emeric Pressburger con la presenza di Francis Ford Coppola. Oggi l’ospite prestigioso sarà Emir Kusturica, che presenterà il suo capolavoro Underground, accompagnato dal Ministro della Cultura Serbo, Nebojsa Bradic e dall’Ambasciatore d’Italia a Belgrado, Armando Varricchio.

Ieri per il concorso Torino27 si è presentato Crackie, film della canadese Sherry White (al suo primo lungometraggio). Un film che narra la vicenda umana di Mitsy, adolescente di 17 anni, sospesa nel mezzo di un conflitto fra due donne: sua madre e sua nonna. Rivalità fra donne, desideri materni, fragilità femminili: il film è un viaggio a tratti angosciante nei piccoli e grandi traumi di una ragazza che precipita in un vuoto d’affetto e nella mancanza totale di punti di riferimento. Rischiando essa stessa di essere trasfigurata nei modelli negativi che hanno accompagnato la sua giovane vita.

Continuano anche le retrospettive, con un inaspettato successo di pubblico. Amelio stesso si è detto spiazzato da un tale risultato. In particolare è stato Nicolas Winding Refn che ha sbalordito il pubblico italiano. Ieri si è proiettato Bronson, ultima fatica del geniale regista danese. Un viaggio irresistibile nella vera storia del “detenuto più violento del Regno Unito”, che ha sulle spalle (ancora attualmente da scontare) 35 anni di prigione, 30 dei quali in regime di isolamento (senza aver mai commesso crimini di sangue). Bronson è semplicemente, estremamente e allegramente un violento. Così violento da iniziare le sue risse picchiando il maestro di scuola elementare e scaraventargli una sedia sulla schiena. Così violento da distruggere le prigioni in cui lo ingabbiano, farsi un suo pubblico fra i detenuti ed essere costretto ad essere trasferito di volta in volta. Così violento che cambia il suo vero nome in Charles Bronson, con tutta l’evocazione di una violenza che diventa anche celebrità. Bronson andrà a perseguire così ostinatamente la sua devozione alla furia e alla brutalità fino a scardinare i meccanismi di un sistema che non prevede un elemento per cui la cella del carcere è “una camera d’albergo” e sarà costretto a liberarlo, rappresentando un costo esorbitante per le casse dello Stato. Il rimando ad Arancia meccanica (passando da Natural Born Killer fino a Fight Club) insomma è esplicito e diretto, ma la lettura della violenza nella società si spinge ben oltre i confini kubrickiani. Per il protagonista la violenza infatti diventa “vocazione”, destino da perseguire con tutte le forze per “creare un impero”, “diventare qualcuno”. Refn, con uno stile registico condito da un’ironia travolgente (Bronson prima delle sue imprevedibili esplosioni di violenza è a tutti gli effetti un vero e proprio gentleman inglese), riesce a trasformare la violenza come una forma d’arte, uguagliabile alla pittura o al bel canto. Il film terminerà, con la surrealità di un sadico, che – accompagnato dalle musiche di Giuseppe Verdi – fa della propria indole feroce e del proprio stesso corpo, uno spettacolo raffinato. La violenza come opera artistica distruttiva, teatrale e devastante.

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