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cultura dell'immagine e della parola

Torino Film Festival
Diario, 18 novembre

Una scena di TetroSono quasi le 22, e sullo schermo del Cinema Ambrosio scorrono alcuni brevi immagini montate fra di loro per omaggiare Francis Ford Coppola. Un sogno lungo un giorno, Il padrino, Dracula di Bram Stoker, Apocalypse Now. Scene indimenticabili che conosciamo quasi a memoria, in quanto ormai appartenenti a una narrazione cinematografica che si è fatta storia. E la consapevolezza che dietro una porta della sala sta per uscire colui che le ha partorite, rende quei momenti ancora più significativi.

Qualche minuto dopo il maestro Coppola esce alla scoperto ed è subito standing ovation. Ritira il premio speciale Torino, in rappresentanza dell’American Zoetrope, studio cinematografico americano fondato assieme a George Lucas, che il 27° TFF ha deciso di premiare. Poi inizia a parlare – per quasi mezz’ora – snocciolando aneddoti e sul suo ultimo lavoro, Tetro (titolo italiano, Segreti di famiglia), che da lì a poco sarà proiettato in sala, svelando il forte carattere autobiografico che sta alla base del film. Già nella mattina Coppola, in conferenza stampa, aveva risposto alle domande dei giornalisti, scagliandosi anche in una polemica contro il 3D e apprezzando invece l’uso del digitale.
Tetro appare subito un lavoro di grande raffinatezza. Tetro non è solo un film di Coppola, ma è Coppola, come estetica e immaginari. Il regista ritorna allo stile che lo caratterizza, con quella maestosità di immagini e musica e con i movimenti di macchina che accarezzano la storia, la cullano in un crescendo che sembra non finire mai. Ma Coppola non è presente solo nell’occhio che scruta, ma aleggia fin dentro il film, come fantasma che ispira la narrazione, in un auto citazione continua della sua vita e delle sue opere. Due fratelli rivali, un padre autoritario, un centro culturale argentino e altro ancora: la trama (troppo articolata da citare) di snoda in mille sfaccettature, in continui flashback ed istantanee oniriche, che ripercorrono un dramma psicologico, sospeso fra storia e surrealismo, fra presente e passato, fra bianco e nero e colori. Con una straordinaria interpretazione del sempre più sorprendente Vincent Gallo, il film è percepito come una porta che si addentra direttamente nella mente del regista, giostrando con la teatralità della sua vita e della sua arte. Con Tetro Coppola riscrive il suo mito, e lo fa con l’alfabeto stilistico che lo ha reso uno dei più amati cineasti della storia del cinema contemporaneo.

Qualche ora prima nella stessa sala si è proiettato invece il film in concorso Adás – Transmission, dell’ungherese Roland Vranik. Uno sguardo spietatamente distopico su un mondo precipitato nel caos a causa di un misterioso (e lo rimarrà fino in fondo) tilt degli apparecchi di comunicazione. Televisione, computer, telefoni cellulari: ogni “trasmissione” è in panne. Senza intermediazioni comunicative le relazioni sociali dei protagonisti, una famiglia e i loro amici, precipitano in una follia strisciante ed anafettiva. Il disorientamento generale è simbolicamente rappresentato dall’angosciante mancanza di orizzonti dello schermo televisivo, ed è questo il filo rosso che attraversa tutto il film. Ma se l’idea di Vranik è originale, eversiva e potenzialmente evocativa, l’indagine sociologica e psicologica di una realtà dipendente dal tubo catodico appare faticosa nella narrazione del suo film (nonostante uno stile registico interessante) e non riesce a coinvolgere totalmente lo spettatore.

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