Tutto vero. Possibile?
La curiosa operazione, cinefila ma non solo, messa in piedi dal regista Valerio Jalongo nasce dalle riflessioni del movimento Centoautori, del quale lo stesso Jalongo si è fatto portavoce. Alla base di questo prodotto (che è un doc ma forse no) si trova la necessità di voler fare un po’ di luce sulle tante ombre del cinema italiano, cioè costruire un’indagine per comprendere meglio i motivi e le responsabilità della crisi che è attuale da diversi anni.
La questione è bollente e complessa, ma per lo spettatore si tratta comunque di un viaggio emozionante perché il film è come un’esperienza che alterna, con una certa abilità e frenesia, immagini di repertorio a interviste, frammenti della vita politica, culturale e televisiva degli ultimi trent’anni d’Italia a indagini fatte sul territorio e rivolte agli spettatori dei giorni nostri. È dentro questa dimensione intima e spontanea che Di me cosa ne sai definisce tutta la sua forma fatta di prospettive diverse. Si guarda il film con gli occhi di chi s’indigna (come Jalongo che continua a farsi/farci domande), di chi è incredulo (come il regista Felice Farina, coprotagonista, malvolentieri, di un intreccio grottesco e semiserio che racconta la sua odissea alla ricerca di fondi per terminare il suo film), di chi è ignaro (come i tanti spettatori di cinema o televisione intervistati da Jalongo, spesso distanti dalle questioni affrontate, se non addirittura completamente assuefatti dalla tv), di chi fa parte del passato (come i tanti registi italiani intervistati, da Lilliana Cavani a Vittorio De Seta, solo per citarne due, che sembrano avere occhi che non hanno più niente a che fare con l’attualità, che di film ne hanno fatti tanti ma che ora li guardano solamente). Poi ci sono gli occhi di Berlusconi. E quelli di Fellini. Sì, perché Jalongo rispolvera alcuni frammenti di interviste televisive datate 1985 e racconta una pagina di storia d’Italia (attenzione, interessante non solo a chi interessa il cinema) ormai da troppi dimenticata. Anzi no. Non dimenticata. Nascosta sotto il tappeto. Sì, perché un po’ è vero che gli italiani hanno la memoria corta, ma è anche vero che questo alla lunga, a qualcuno (o a molti?), conviene. Così lo spettatore scopre (è proprio il caso di dirlo, scherzi della memoria, del passato e dell’ignoranza) che il 14 maggio 1985 Federico Fellini ricorre in tribunale contro Silvio Berlusconi per impedire che i suoi film, trasmessi in tv, vengano interrotti dalle pubblicità. Così Fellini, un regista ovvero un’artista e non un magistrato o un politico (ve lo immaginereste al giorno d’oggi? il mondo cambia!), va contro «L’attivissimo Cavaliere che di idee ne ha fin troppe» (già nel 1985) e gli propone, sarcasticamente, di intervallare con spot pubblicitari pure le funzioni religiose o le parate militari, visto che contempla l’interruzione di un’opera d’arte. Berlusconi spiega, a proposito di un film di Fellini (Ginger e Fred, 1986) che «non c’è nessuna possibilità di rapporto tra la televisione reale sia nostra che dell’ente di stato e la televisione immaginaria di Fellini» perché quella di Fellini, dove un certo Cavalier Fulvio Lombardoni assomiglia ad una sorta di Grande Fratello, «appartiene soltanto al suo mondo grottesco ed è lontanissima dalla realtà». Non si sa se ridere o piangere quando si vede, subito dopo questo scambio di opinioni, Mastella che balla in mezzo a due (showgirls?), ospite di una trasmissione (del Bagaglino?).
La voglia di esprimere l’assurdità in cui gravita il cinema italiano è tanta e Jalongo si fa prendere troppo dal discorso. Quando c’è troppa passione si finisce per non controllarla e qui si rischia in più di un’occasione di sfiorare il nozionismo. Resta illuminante l’intervista a Dino De Laurentiis (non il presidente del Napoli che fa i cinepanettoni, quello è il figlio, il mondo cambia!), che svela i segreti (anche questi dimenticati) della caduta del grande cinema italiano, l’inchiesta davanti ai cancelli di Cinecittà (che ora è per lo più fatta di studi televisivi in cui fanno le riprese di Amici. il mondo cambia!) che “esalta” le conoscenze di alcuni studenti che non conoscono Fellini. Nell’oceano in tempesta in cui naviga il film di Jalongo c’è spazio pure per una polemica con Clemente Mimum relativa ai dati auditel dei telegiornali (purtroppo solo abbozzata) e soprattutto l’interpretazione dei fatti legati alla morte di Pasolini, ucciso poco dopo la sparizione di alcune copie del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, nel 1975. Coincidenza terribile che lascia spazio alla riflessione e che, certamente, avrebbe avuto bisogno di maggiore spazio. Di me cosa ne sai è un film che dovrebbe essere proposto agli studenti della scuola superiore per la capacità di spingere lo spettatore ad una riflessione, a creare un rapporto tra immagine e storia necessario e indispensabile per comprendere meglio il passato e soprattutto il presente. Ma sarà difficile che questa avvenga. Sarebbe un mezzo miracolo e un mezzo sogno. Ma la distribuzione è quella che è (sei copie in tutta Italia), il mercato va da un’altra parte (quale?) e, soprattutto, allo spettatore non gliene frega poi molto. Sbaglio?
Curiosità
Valerio Jalongo è stato uno degli animatori del movimento dei Centoautori ed è tra i fondatori dell’omonima associazione. Al momento è impegnato nella preparazione del film Laria, di cui scrisse il trattamento, finalista Premio Solinas 2002. Ha realizzato documentari di interesse sociale e per due anni ha condotto un gruppo di scrittura creativa con i detenuti del carcere romano di Rebibbia.
A cura di Matteo Mazza
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