La mancata suggestione
Da un certo punto di vista La doppia ora può essere considerato un buon esempio di finzione nel quale le emozioni e le impressioni dei protagonisti coincidono e si interscambiano inevitabilmente con quelle dello spettatore. Questo perché il film possiede una struttura ad incastro che sfiora diversi generi cinematografici (su tutti thriller, giallo, horror) che si sovrappongono ad una storia d’amore fondata sul mistero dalla quale lo spettatore è costretto ad uscirne scoprendo la soluzione finale. Gli elementi di interesse, almeno all’inizio, sembrano non mancare.
Le atmosfere sono quelle di una Torino fredda che diventa glaciale quando si assiste al primo incontro tra Guido e Sonia, dentro uno speed date, tra luci rosse e scambi confidenziali, uno sguardo rubato e una parola trattenuta. Un set allestito a pieno regime, con tanto di regista (Marisa, interpretata da Lucia Poli), comparse, tempi di entrata e di uscita, protagonisti. L’incontro su cui lo spettatore posa lo sguardo insistentemente e da cui si aspetta qualcosa in più è quello tra la bella ragazza dalla pelle chiara e il bel ragazzo disinvolto con la barba e la camicia. Ksenia Rappoport e Filippo Timi, che fanno del loro corpo, della loro voce, dei loro gesti, gli strumenti unici e assoluti della loro esistenza, sono interpreti affidabili di questa distanza emotiva e sentimentale che sembrano portare in scena grazie alle proprie solitudini. Guido viene rappresentato come un tipo di personaggio che mostra fin da subito ciò che in lui fa la differenza: osserva e ascolta, sia che si tratti di un incontro occasionale, sia che si tratti di lavoro (è il custode di una villa e del parco adiacente). Sonia, invece, è raccontata, principalmente, attraverso le proprie debolezze, i suoi pensieri, le proprie inquietudini, tracciando in questo modo una linea netta di separazione tra due mondi che solo la finzione, appunto, può e riesce ad avvicinare.
Ma dietro ai motivi iniziali di interesse, considerando pure tutte le suggestive tracce relative al sound design piuttosto che alle correlazioni con la psicologia, il film di Capotondi (che qui firma il suo primo lungometraggio dopo una lunga esperienza nel videoclip musicale) è un marchingegno esposto ad implosione. Il rischio è avvertibile già dal momento in cui Guido è costretto a spiegare a Sonia (e quindi anche allo spettatore) che cosa sia una “doppia ora”, togliendo quel po’ di gusto e di sorpresa che renderebbero questo film un’ideale terreno fatto d’immaginazione e paranoie. Gli ingranaggi del film vacillano fino al colpo di scena finale che si presterebbe perfettamente per una tavola rotonda sulle soluzioni di sceneggiatura (stabilisca lo spettatore in che misura efficaci). Certamente non occorre esibire, cioè mettere in mostra, ogni cosa. Un film come questo, che fa dell’esibizione, cioè dell’immagine e della visione, una forma di persecuzione (in questa direzione è interessante notare come l’incubo di Sonia sia costruito come una ripetizione di immagini che la inseguono) avrebbe potuto rischiare un po’ di più con se stesso e con lo spettatore. Magari, semplicemente creando una maggiore attenzione/esposizione nei confronti dell’illusione del suggerimento.
Curiosità
La doppia ora è stato presentato in Concorso alla 66. Mostra del Cinema di Venezia. Giuseppe Capotondi dal 1988 al 1990 frequenta la Facoltà di filosofia presso la Statale di Milano. Nel ’91 si trasferisce a Londra dove svolge l’attività di fotografo freelance per testate e agenzie pubblicitarie quali Marie Claire, Vanity Fair, Young & Rubicam e BBDO. Dal 1998 lavora come regista di video musicali per artisti come Natalie Imbruglia, Spice Girls, Skunk Anansie, Kelis, Bush, Keane, Ms Dynamite e molti altri. Dirige anche numerosi spot pubblicitari per clienti quali BMW, Mini, Vodafone, Toyota, Telefonica Spagna, Campari, Seat e Sky, conseguendo riconoscimenti internazionali come l’Eurobest, il New York Film Festival e l’Art Directors Club of Europe. Dal 2004 vive a Barcellona.
A cura di Matteo Mazza
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