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il coraggio di essere un guerriero

il coraggio di essere un guerriero

Diretto da Edward Zwick, Defiance – I giorni del coraggio è tratto dal libro di Nechama Tec ispirato a un episodio realmente accaduto durante la seconda guerra mondiale e che ha portato alla salvezza di più di mille ebrei. Tuvia (Daniel Craig) è un uomo dal carattere complesso, inizialmente mosso dall’impulso di vendetta per la morte dei genitori trucidati dai nazisti e poi quasi immediatamente guidato dal desiderio di cercare chi come lui ha sofferto. Con il suo cavallo bianco, diventa un cavaliere romantico, un Mosè salvatore di popoli, un eroe anomalo, un ebreo che non si adagia alla Woody Allen in un fatalismo lassista ma che, al contrario, si impone con il suo carattere guerriero e combattivo. Malgrado sia un giovane plebeo, ha il capello perfettamente acconciato, l’espressione tipica e la voce (il doppiaggio italiano non aiuta, la versione originale rispettava almeno l’accento marcato di chi parla inglese con una forte influenza dell’est) profonda e calda di James Bond e la sua Bond girl, bella tra le belle, non fa che confermare che il film altro non è che la spettacolarizzata versione esteuropea di un tipico episodio dell’Agente 007.

Il film pretende di essere la trasposizione cinematografica di una storia eroica, ma lo fa in modo così smaccato da rasentare il ridicolo. Volendo dare una chiave di lettura mitizzata della seconda guerra mondiale e della persecuzione ebraica, Zwick infatti rappresenta una realtà fantasctica. Più volte incappa in accozzaglie di immagini e situazioni scontate, che mirano a dare consistenza all’intrigo principale, come i sentimentalismi e la passione tra Tuvia e la sua amata, la fratellanza e la solidarietà tra i membri della comunità, le battute dei due intellettuali del gruppo in contrasto con la forza bruta dei due pragmatici protagonisti, l’indulgenza dell’eroe e le sue debolezze. Tutti ingredienti di una zuppa fiction ritagliata da quella ricetta hollywoodiana già calibrata da Zwick in L’ultimo samurai. A conferma di ciò, la sceneggiatura troppo naif, così come il modo di esprimersi dei personaggi fuori dal tempo. Difficile trovare un uomo braccato che arrivi a pronunciare le parole «ho commesso un errore!»; le espressioni mimiche facciali troppo melodrammatiche, così come il tono enfatico degli interventi fanno tanto assomigliare il lungometraggio a un film muto. Il cineasta di Chicago crea in questa occasione un film di demagogica propaganda partigiana, che pretende di mettere in scena atti eroici farciti di finte debolezze volte a mettere ancor più in evidenza il lato umano-eroico dei personaggi.

Si salva la fotografia. Le scene sono ambientate nei boschi dell’Europa dell’Est e si avverte l’umidità, il freddo delle paludi e l’odore penetrante della terra bagnata; si osservano i paesini e le campagne abbandonate, in cui regna il terrore del nemico tedesco che non perde occasione per seminare i suoi moniti antisemiti. Almeno ne L’ultimo Samurai lo studio su costumi e battaglie era stato più curato. Qui purtroppo, vuoi anche per il fatto che si tratta di un altro contesto e che sono stati necessari dodici anni per recuperare sufficienti finanziamenti alla produzione, Zwick non ha dato il meglio di sè.

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