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Come Salvatores comanda

Come Salvatores comanda

In principio era il verbo, e il verbo era presso Ammaniti e il verbo era un romanzo. Come Dio comanda, appunto. Non sarebbe lecito parlarne in questa sede, perché un film è un film, lo sappiamo, e dev’essere visto e sottoposto a critica a prescindere dal testo da cui eventualmente deriva. In questo caso però l’operazione si preannuncia piuttosto difficile, perché questo libro non è un libro qualsiasi ma un romanzo potente e attuale. Lungo, troppo lungo da poter essere trasposto sul grande schermo senza tagli: Salvatores, regista e co-sceneggiatore con lo stesso Ammaniti, ha fatto una scelta precisa, quella di isolare il rapporto padre-figlio che sta alla base del romanzo, per poterlo raccontare nella sua esclusività.

“Ho un’età da padre” ha detto il regista di Marrakech Express“non solo o non più quella per raccontare storie di amici che vanno in viaggio verso il Marocco”. E parla di un “bambino cinematografico” che stanno allevando, lui e Ammaniti: quello di 10 anni in Io non ho paura e, quattro anni dopo, il quattordicenne Cristiano Zena di quest’ultima pellicola, interpretato dall’esordiente Alvaro Caleca. Il film è quasi interamente girato con camera a mano, attraverso piani sequenza che seguono le varie scene dall’inizio alla fine, il che comporta trasgressioni alla classicità del montaggio e scavalcamenti di campo, in favore di un flusso di emozioni che proviene direttamente dagli attori: bravo Filippo Timi nel ruolo del padre violento e filonazista ma capace di un amore smisurato per il figlio, straordinario Elio Germano nei panni di Quattro Formaggi, un po’ aspirante serial killer un po’ fool shakespeariano, con un’insana passione per “Ramona Superstar”.

Segue i personaggi, la camera del regista, e le loro passioni (senza giudicarle): sotto una pioggia che sembra eterna, nel fango o sulla cima di una montagnetta artificiale. Nell’idea di mettere a nudo il cuore di chi, all’occhio convenzionale degli altri, sembra non avere cuore. A costo di un montaggio a tratti fastidioso, l’occhio del regista – e con lui quello dello spettatore – s’inchioda ai momenti salienti di una storia difficile, fatta da personaggi cattivi ma capaci di sentimenti profondi e di umana disperazione, il che fa ancora più effetto sullo sfondo desolato e desolante della provincia italiana (siamo in Friuli), terra di nessuno contesa tra la campagna che fu e tristi centri commerciali, dove forse “solo i ricchi sono liberi” e i poveracci restano ai margini di ogni trasformazione sociale. Bella la fotografia di Italo Petriccione, aderente come un guanto la colonna sonora dei Mokadelic. Vera nota dolente, il finale: assolutamente non necessario, getta un’ombra di dubbio sull’intera pellicola. Vedere per credere.

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