hideout

cultura dell'immagine e della parola

Godot non è ancora arrivato

Godot non è ancora arrivato

Un approccio militante e un po’ irriverente porterebbe a paragonare la landa desolata in cui si svolge tutto il romanzo ai paesaggi tipici e quintessenziali nella rappresentazione del declino dell’umanità, del manga e cartoon Ken Shiro.
Ma c’è molto di più. Non c’è solo desolazione e abbruttimento fisico e morale: ci sono un uomo, un bambino e, ovviamente, una strada. In un mondo sconvolto da un cataclisma non specificato, non c’è più proprietà, non ci sono più diritti (sostituiti dal moltiplicarsi dei doveri); gli uomini non hanno più nome, i bambini non hanno più giocattoli. Si fa fatica a respirare. Il freddo è penetrato dovunque, così come la cenere, col suo posarsi funereo e abnorme. Il mondo è diventato la strada che lo attraversa: anch’essa senza nome e, cosa ben più grave, senza direzione. Paradossale: una strada senza direzione. Eppure McCarthy ripone in essa l’intera vita di uomo e quella di suo figlio, in viaggio verso un simbolico Sud: un atto senza pietà, già a partire dalla creazione letteraria. Un’idea paragonabile a quella di Beckett, con la sua attesa per Godot, ma con più corpo, con più parametri a definire la cancellazione della certezza. L’errore. Completamente umano.

Lo stile di McCarthy, più che essenziale, è scheletrico: anche la sua più piccola parte, il più invisibile osso, è necessaria. Così le parole non sono mai molte, tuttavia pesano come bombe atomiche da diecimila metri e lasciano lo stesso vuoto, intorno, una volta pronunciate. Frasi di una sola parola, di poche lettere, che valgono un capitolo intero. Dialoghi-non dialoghi senza punteggiatura, senza interruzione prima di una descrizione, di un gesto muto, del silenzio. C’è un uomo, il suo bambino e la strada, sempre, compagna crudele e fedele nel tradirli, nel non portarli in nessun luogo. L’uomo è straniero a se stesso, sente di non aver più passato, di non volerlo avere. Rimane al suo posto grazie al figlio: l’unico capace di tenerlo in piedi, di farlo andare avanti – sulla strada e non -, di dargli un motivo per ricordare la moglie suicida, l’infanzia, la nascita del bambino, tutto ciò che è stato prima della catastrofe.

E’ un romanzo sanguinoso, nonostante le morti siano fredde e lontane dal sentire comune di eventi del genere: sanguinano le intenzioni dell’uomo, le sue speranze e gli abbracci, quando prova a riscaldare il figlio. McCarthy abolisce la ritualità delle conversazioni in maniera drastica: c’è una storia perché la vogliamo. McCarthy fa letteratura sospesa, qui. I tanti lettori, stranissimo per il mercato italiano, che si sono concessi a questo azzardo, ci si sono trovati nel mezzo: una sorta di limbo stilistico, in primo luogo, oltre che sul piano del contenuto vero e proprio.
Il fulcro del romanzo è il rapporto tra padre e figlio: il contesto apocalittico prova a snaturarlo, ma senza successo e, anzi, con questa esasperazione, fa emergere un duo di protagonisti fondato su una commovente e umanissima incertezza. L’espressione più frequente nei loro dialoghi è di certo «Non lo so»; la domanda spesso è più grande delle stesse parole che l’hanno formulata e arriva a noi: cocente e penetrante, si chiede cosa sia l’amore, l’uomo, la natura.

L’autore
Cormac McCarthy, nato nel Rhode Island nel 1933, è cresciuto in Tennessee. Ora vive in una sorta di buen retiro a El Paso in Texas. Tra i suoi romanzi tradotti in Italia, Il guardiano nel frutteto, Figlio di Dio, Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Città della pianura e Non è un paese per vecchi, tutti editi da Einaudi. La versione cinematografica di quest’ultimo, realizzata da Joel e Ethan Coen, è stata presentata al Festival di Cannes ed è di imminente uscita nelle sale italiane.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»