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cultura dell'immagine e della parola

C’erano una volta i buoni sentimenti

C'erano una volta i buoni sentimenti

È proprio il caso di dire “c’era una volta” di fronte alle prime immagini del film che si apre come la più classica delle pellicole Disney con un libro che si sfoglia e personaggi, disegnati a matita e china, che prendono vita dalla carta delle pagine illustrate. Un modo di fare animazione a cui viene spontaneo accostarsi con una certa nostalgia.

Ma proprio a un passo dal “vissero felici e contenti” la principessa Giselle (Amy Adams), in procinto di sposarsi con il suo principe a lungo atteso, viene spedita nel mondo reale, diventando da delizioso personaggio cartoon bidimensionale a impaurita donna in carne e ossa. La transizione da cartoon a commedia sentimentale con attori reali si può dire pienamente riuscita grazie alla capacità degli attori di mantenere le stesse caratteristiche dei personaggi del cartoon anche nel trafficato centro di New York, più incline al cinismo e al disincanto che all’entusiasmo e all’ingenuità disarmante delle fiabe. Si ritrovano infatti trasportati nella realtà della Grande Mela, senza grandi variazioni, i più celebri topoi delle fiabe Disney. Ritornano la strega che si tramuta in una vecchina malefica e in un drago, l’abitudine di cantare e danzare per esprimere i sentimenti, la mela avvelenata il cui unico antidoto è il bacio del vero amore, la principessa che chiama a raccolta gli animaletti per avere un aiuto nelle faccende domestiche e così via. La Disney si autocita quindi e lo fa disseminando nel film tutta una fitta rete di richiami espliciti e non alle sue fiabe più amate, senza però ribaltarle o cambiargli funzione come aveva fatto Shrek (id., Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001). Così Giselle diventa la principessa che racchiude in sè le caratteristiche consuete di tutte le altre e nello stesso tempo, attraverso il viaggio di formazione che compie, le supera grazie a un’acquisita maturità nel considerare il suo ruolo di donna e l’amore in modo meno semplicistico e non più come risultato di una semplice relazione causa-effetto. La compresenza tra animazione e live action che occupava ad esempio una lunga sequenza in Mary Poppins (id., Robert Stevenson, 1964) è ridotta al minimo e infatti il punto di contatto tra i due mondi è affidato allo spassosissimo scoiattolo Pip, creato grazie le moderne tecniche della computer grafica, o alle apparizioni della regina malvagia, specchi e derivati.

Anche la Disney quindi tenta la via della modernizzazione e del rovesciamento della fiaba tradizionale, probabilmente al fine di rendere principi e principesse più attuali e vicini allo spettatore del Duemila che non sembra più prendere a modello questo genere di personaggi. Centro focale di questo capovolgimento di prospettiva è la figura del principe Edward (James Marsden) che dovrebbe essere l’uomo dei sogni e di cui invece sono enfatizzati e volutamente messi in ridicolo il fare artificioso e teatrale e l’attaccamento pervicace a una visione dell’amore, così eccessivamente romantica quanto superficiale. Ma l’intento dissacratorio, seppur coraggioso per una casa di produzione che ha fondato sulle fiabe tutta la sua fortuna, rimane pur sempre una manovra cosparsa di zucchero e miele, fedele alla marca di fabbrica Disney e anche l’ironia che pervade la pellicola non è per nulla pungente ma sempre lieve e delicata. La portata innovativa del film è indubbia ma forse per conquistarsi una maggior porzione di pubblico adulto ci sarebbe voluta un po’ di audacia in più.

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