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cultura dell'immagine e della parola

Working class hero?

Working class hero?

Take another piece of my heart
Senza dubbio alcuno, mi sento di affermare che l’horror, in tutte le sue incarnazioni, rappresenta certo, per qualsiasi regista, una delle sfide più ardue da affrontare, di fronte a due delle esigenze più difficili da soddisfare in un pubblico: paura e originalità. Senza dubbio, nel corso della storia della settima arte, vi sono state produzioni in grado di raggiungere entrambi gli obiettivi, altre che, pur aggrappandosi, o soltanto sfiorandone uno sono riuscite a ottenere ottimi risultati. E altre ancora, questo il caso di Severance, incapaci di centrarli. In queste situazioni si sente spesso parlare di limiti di budget, d’azione e, perché no, creativi: del resto quale originalità può prevedere l’ormai consueto slasher movie ambientato in un bosco che nasconde, oltre a uno o più nemici, trappole, insidie e sfiducia fra le vittime? Eppure, anche pensando di assegnare al tentativo di Smith tutte le attenuanti del caso, è difficile trovare traccia, fra i suoi fotogrammi, del tanto decantato humour britannico – leggasi L’alba dei morti dementi (Shaun of the dead, Edgar Wright, 2004) -, di uno stile personale e convincente, interpretazioni memorabili, sequenze appassionanti o, semplicemente, capaci di far compiere al pubblico il famigerato salto sulla sedia. Quello che resta è, al contrario, mero citazionismo in una sbiadita copia carbone – da I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, Walter Hill, Usa, 1981) ai lavori di Rob Zombie – e l’idea che, più a una pellicola intelligentemente british, ci si trovi di fronte all’ennesimo teen movie per trentenni nostalgici, fratelli maggiori delle orde di ragazzini corsi alla corte dei numerosi quanto inutili Saw e Hostel vari. La cosa triste è che, per prodotti come questo, non pare possibile neppure appigliarsi al salvagente di ogni cattivo film: il fatto che sia puro intrattenimento.
Come può intrattenere la noia!?

The mask and the mirror
Chiarita una posizione che boccia inevitabilmente questo prodotto, vorrei a ogni modo cercare di analizzare quelli che potrebbero – o potevano? – essere gli spunti vincenti di una pellicola certo non priva di idee interessanti, seppur mal sviluppate: innanzitutto quella di delineare le vittime non come normali impiegati ma come dipendenti di un’azienda fabbricante d’armi risulta inusuale, pur se non sfruttata a dovere, così come l’utilizzo di ostili apparentemente senza volto, strada già percorsa ma indubbiamente efficace, in grado di disturbare almeno in potenza lo spettatore che, inconsciamente, tende a dipingere sul “mostro” – o, come in questo caso, sui “mostri” – il volto di una sua personale paura. I risvolti, dunque, non soltanto ironici, ma, in qualche modo, politici e “sociali”, paiono elementi sicuramente importanti. Cosa, dunque, può aver convinto, o portato, il regista e sceneggiatore al progressivo impoverimento strutturale della sua pellicola? Cosa nasconde il tentativo, certo non riuscito, di mettere alla berlina quello che pare essere l’atteggiamento (e l’affidamento) di stampo militarista di carnefici e vittime? Probabilmente una produzione non in grado di identificare correttamente le potenzialità di una pellicola che, se pur certo non sarebbe potuta divenire una pietra miliare del genere, avrebbe comunque avuto il piccolo merito di proseguire un trend che, negli ultimi anni, pareva essersi avviato verso un nuovo standard.
Speriamo sia stato soltanto un incidente di percorso. E di non aver deviato sulla strada sbagliata.

Curiosità
Gli omaggi di Smith al maestro Kubrick sono ricorrenti nel corso della pellicola: la CRM114, così come la versione “hard rock” di We’ll meet again sui titoli di coda fanno riferimento al Dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: how i learned to stop worrying and love the bomb, 1964) così come l’incontro fra il personaggio interpretato da Danny Dyer e le due avvenenti “accompagnatrici” ungheresi richiama Arancia Meccanica (A clockwork’s orange, 1971).

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