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cultura dell'immagine e della parola

Fra inferno e paradiso

Fra inferno e paradiso

Accecante e tenebroso come solo un Sole nero può essere. Così appare già dalle scene di apertura la pellicola di Krzysztof Zanussi, che, con una coerenza che raramente si ravvisa nelle attuali opere di cinematografia, conserva questa sua indole per tutta la durata del film, con il risultato di riuscire a rapire lo spettatore, trasportandolo nell’atmosfera di quella suggestiva Sicilia che racconta, per farlo oscillare tra momenti di estasi e autentico lirismo e altri di angosciante drammaticità priva di vie di scampo.

Sembra ora quasi superfluo sottolineare come Il sole nero sia un film di sentimenti forti e di passioni esacerbate: l’amour fou fra i giovani sposi Agata e Manfredi, la morte di quest’ultimo provocata dall’invidia della felicità altrui, l’impulso di vendetta di Agata per la sua felicità irrimediabilmente distrutta, la tentazione di una passione folle e disperata da parte di Agata nei confronti di Salvo, l’assassino, e infine il desiderio di annullamento che si impossessa di Agata così come molto tempo prima si era già impadronito di Salvo. L’abilità del regista nel saper raccontare la tragica vicenda si riscontra nel dosaggio ben calibrato dei dialoghi e delle azioni, restituendo all’arte del cinema ciò che le è più proprio: la narrazione per immagini. Ecco la ragione dei dialoghi ben distribuiti, in cui il numero delle battute presente non è mai eccessivo, in cui c’è solo quello che ci deve essere e nulla di più, probabilmente perché come dice Agata «possiamo parlare senza parole. Le parole servono solo a sporcare il silenzio». E allora il regista fa parlare a turno personaggi e ambienti, arredi e oggetti, con una cura meticolosa per ogni dettaglio. Ci sono colori nella pellicola de Il sole nero che ancor più che “dire”, gridano significato. Rosse sono le pareti del sontuoso appartamento di Agata e Manfredi, accese come la fiamma del sentimento assoluto che li unisce; blu invece sono le lenzuola del letto che accoglie Agata subito dopo la scoperta della morte dello sposo, blu è la luce che pervade la stanza dell’obitorio dove lei si reca a dargli l’estremo saluto, blu l’atmosfera del corridoio dell’ospedale dove Agata è ricoverata per un malore, blu infine le pareti della dimora di Salvo, in cui l’odio ha da tempo avuto la meglio su qualunque altro sentimento. E ancora Zanussi veicola il messaggio più profondo della sua opera attraverso oggetti o immagini “simbolo” come l’abbigliamento che Agata indossa al funerale di Manfredi, un abito bianco coperto da uno scialle nero, e come il controluce in cui si svolge la confessione di Agata, che cerca invano nelle parole di un prete le risposte al suo tormento interiore. I richiami alla luce sono talvolta anche espliciti a livello verbale, andando a suggellare l’armonia del tutto: ecco che attraverso le parole di Agata veniamo a sapere che «è stato un raggio di sole» a spezzare la favola bella, l’idillio del suo amore: nient’altro infatti avrebbe potuto essere in sintonia con le tonalità vibranti delle anime della coppia, completamente appagate da una vita di sogno e di astrazione. Le luci e le ombre proiettate dalla pellicola sono inoltre costantemente intrise di trascendenza: è sulle corde del sacro più che del giuridico che si sviluppano i temi della colpa e della pena, del perdono e della vendetta. Benché infatti Agata e Salvo restino verghianamente dei “vinti senza Provvidenza e senza perdono” l’atmosfera che li circonda è profondamente intrisa di senso religioso: per la madre di Agata l’assassino di Manfredi è «Satana», per Agata Manfredi è «un angelo, un santo», per Salvo il responsabile della sua infelicità è Dio, «perché non c’è», e Salvo nelle parole del commissario di polizia è «un angelo caduto».

Questo film, che si gusta scena dopo scena nel suo divenire, racconta in maniera esemplare l’umanità dei suoi protagonisti, attraverso inquadrature che si lasciano assaporare a poco a poco, inseguendo gesti carichi di significati e di possibili interpretazioni. Forti simmetrie regolano il “sistema dei personaggi” di Zanussi: Manfredi è l’”angelo buono”, dai tratti fanciulleschi e dolci, diametralmente opposto a Salvo eppure egualmente privo di difese nei confronti della vita. Salvo è una sorta di Lucifero, l’artista maledetto caratterizzato da tratti quasi infernali non fosse per l’autentica e intima disperazione che lo divora, violento nei confronti del fratello minore in un rapporto che ricorda un po’ quello letterario fra Rosso Malpelo e Ranocchio. Agata, sognatrice e passionale, ha un carattere forte e a differenza di Salvo è in grado fin all’ultimo di decidere della sua vita. Nel suo atteggiamento nei confronti degli infermieri dell’obitorio, sembra di rivedere in lei la statura della madre di Cecilia ne I promessi sposi, e nel rifiuto del distacco da Manfredi appare come una novella Lisabetta da Messina di boccaccesca memoria.
Alla fine sono le figure di Agata e di Salvo, grazie alle splendide interpretazioni di Valeria Golino e di Kaspar Capparoni, a stagliarsi prepotentemente sullo schermo, contro la luce di un sole nero: creature che bruciano di vita sullo sfondo di una Sicilia cupa e carica di morte. Creature entrambe colpevoli di uno smisurato amore per la vita.

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