Monografia – David Fincher
Una caccia all’uomo nei corridoi angusti di una prigione di massima Zodiac che tra lettere e fascicoli, segue la storia vera (ma mai così improbabile) di una caccia all’ossessione.
Gioco o son desto
Il risveglio di Ripley la vede già conquistata: il nemico ha invaso il suo corpo, la caccia si è già silenziosamente aperta. Fincher non attende e dispone immediatamente le pedine sullo schermo di Alien3 (id., 1992): nella riunione per informare i detenuti della presenza di una donna si definiscono personaggi e ruoli: il guardiano capo, burocrate inabile, l’assistente impaurito, il buon dottore silenzioso e ambiguo, il capo spirituale, tanto saggio quanto feroce.
La scacchiera è una colonia penale di massima sicurezza, cunicoli sporchi e spazi ristretti, dove Ripley inizia a giocare al gatto con il topo con i detenuti: cacciata dall’alien, il tenente si mescola tra gli uomini casti per sfidarli, ne conquista uno, solo per riappropriarsi del suo ruolo di leader contro il nemico di sempre: la svolta è la sua indesiderata gravidanza, che la rende simile alla creatura che porta in grembo, facendola diventare invulnerabile (come in un videogame). Così Ripley diventerà cacciatrice a sua volta, invertendo i ruoli e cercando di intrappolare il nemico in una sorta di nascondino mortale.
In Seven (Se7en, 1995) una scacchiera all’inizio del film segna già le intenzioni: un thriller oscuro, un luogo da incubo che non ha nome, dove i giocatori si spingono avanti, indizio dopo indizio, guidati da un assassino che conosce il percorso e che si appresta a concludere il suo enigma con uno scacco matto. Il gusto risiede nella scoperta, lenta e progressiva, di un disegno ampio, di un oggetto che porta a un altro oggetto, di una traccia messa lì per indicarne un’altra. Zodiac nel primo caso il personaggio interpretato da Forest Whitaker, Burnham, candanna se stesso per proteggere la famiglia Altman dalla furia cieca di Raoul: il suo atto manderà in rovina lui e la sua famiglia, mantendendo intatto il suo vigore morale. Anche Graysmith manterrà intatta la sua missione, votandosi alla caccia del killer, ma rinunciando alla sua famiglia, letteralmente annullandosi per un libro di congetture.
Fight Club (id., 1999), dopo la consacrazione di Seven, diventa il film simbolo del regista: una storia di inganno e manipolazione, che Fincher costruisce sopra il processo di sospensione dell’incredulità che ogni spettatore mette in atto nella fruizione di opere narrative. Credere al narratore senza nome interpretato da Edward Norton è prassi naturale per chiunque e sebbene Fincher ne racconti la totale inaffidabilità, mostrando addirittura Durden prima che egli possa esistere ufficialmente nel film, la sorpresa finale rimane salda. Il gioco si estende dalla storia al processo cinematografico, ad una vera e propria manipolazione della pellicola, che diventa essa stessa indizio per scoprire la verità della trama raccontata.
Ancora una volta, l’incosapevolezza del protagonista si trasforma in un risveglio, in una progressiva comprensione della realtà, in una corsa sempre fuori tempo contro l’inevitabile. Sebbene Norton comprenda l’inganno, non è più in grado di risolvere il suo enigma, forse perché non è in grado di opporsi a se stesso.
Seven, The Game e Fight Club sono film di indizi e soluzioni, di inganno, che mettono in campo lo spettatore e le sue convenzioni di visione, sovvertendo le modalità di fruizione e riflettendo sul concetto di verità narrativa e di realtà filmica.
Panic Room (id., 2002) si accosta al più lineare Alien3: una caccia che dura una notte, una location chiusa e claustrofobica, tanto vuota quanto cunicolare, oscura come una trappola.
[img4]Posta una situazione e una location, si deve giungere alla soluzione dell’enigma: come faranno le due eroine a liberarsi dai ladri? Fincher mette in campo le pedine da subito: una città fantasma e incombente (rappresentazione fisica, un titolo di testa, di una New York ossessionata dall’11 settembre); le eroine femminili (ancora una volta una donna a combattere in un territorio del tutto maschile) sole e spaventate, ma con un’intesa intima e forte; e i tre antagonisti, il folle stupido (un Jared Leto che qui finirà ammazzato, come in Fight Club era finito con la faccia spappolata), lo sconosciuto spietato e il saggio di colore (come il Charles Dutton di Alien3 e il Morgan Freeman di Seven ).
Il regista dissemina oggetti e situazioni come tessere di un domino, per poi spezzare il film a metà a rimescolare le carte: Meg Altman diventa la cacciatrice degli esterni/alieni chiusi dentro la panic room, spostandosi nel territorio della sua casa come una soldato.
Zodiac è un film di rottura rispetto ai soliti canoni rappresentativi di Fincher: un occhio calmierato rispetto alle eccitazioni digitali di Alien3 (lo sguardo distorto dell’alieno nei corridoi) e ai luoghi infinitamente permeabili e penetrabili di Fight Club e Panic Room (il percorso dal cervello alla canna della pistola per il primo, e quello del gas dalla bombola al sistema di areazione della panic room per il secondo, solo per citare due esempi).
Come in Seven e The Game, Zodiac racconta un percorso attraverso una serie di indizi, persone e oggetti/immagini. Rispetto a Seven, i rituali degli omicidi del serial killer sono secondari, piuttosto le lettere, le parole, i simboli, i fascicoli sul caso Zodiac diventano il motivo stesso del film. Un assassino che non ha volto, una serie infinita di ipotesi, idee, associazioni che diventano sempre più slegate dalla realtà, componendo una nuova realtà nella mente ossessionata di un vignettista.
Se all’inizio è Zodiac a giocare con la polizia e i giornalisti, forse addirittura attribuendosi omicidi che non ha commesso, stuzzicando le curiosità delle televisioni, creando se stesso sui mezzi di comunicazione (Armstrong dice: «Certo che quella lettera
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