Trasformismo per amore
C’è una materia, una storia: l’Italia del secondo Dopoguerra, del boom economico e delle rivolte operaie e studentesche. E ci sono due specchi che si guardano a vicenda, completandosi come se entrambi riflettessero altro e oltre.
Locandina e copertina, facce e ritratti, voce e parola. Tutto passeggia attorno alla storia di Accio Benassi da Latina e alla sua fervente passione politica.
Lo stesso incipit per i due lavori: il seminario toscano dove Accio si getta con autentiche intenzioni sacerdotali e dove imparerà, per sempre, l’onestà e l’amore per la verità. Con la crescita e il passaggio dei bollori spirituali, Elio Germano diventa l’ottimo volto dell’adolescente Accio (il racconto in tutti e due i lavori si ferma ai 20 anni del protagonista). Un po’ Fantozzi e un po’ Che Guevara dell’altra sponda, Accio è un giovane attivista del MSI. Il clima è da subito infuocato a causa, soprattutto nel film, del fratello maggiore Manrico (Riccardo Scamarcio) che assurge presto ad acuto contraltare ideologico e non solo. I due fratelli si disconoscono ripetutamente, invadendo reciprocamente le azioni di protesta l’uno dell’altro. La parola chiave, per capire Accio, è rivoluzione: sia tentata da lui in prima persona, sia operata su di lui dal destino. Così, grazie a fratello, sorella, amici e morti ammazzati comunisti, Accio approda al versante rosso dell’Italia. Ma per lui è lo stesso: sempre di rivoluzione da fare si tratta. Il libro ha uno stile squisitamente “smozzicato” e, per i temi e il linguaggio minuziosamente descrittivo, ricorda da vicino il Pasolini di Ragazzi di vita e Una vita violenta. Il film, nei dialoghi, calca la mano sul dialetto giustamente inevitabile della proletaria famiglia Benassi, creando una sorta di “effetto burino” davvero azzeccato.
La passione politica si estende a tutto, anche all’amore, contrastato ovviamente, dei due fratelli per la stessa ragazza. Calando Accio in quegli anni, si svela la sua natura radicalmente anticonformistica: non si omologa tacitamente al pensiero giovanile dominante della sinistra, ma lo fa solo dopo la necessaria “autocritica” (così era chiamata in quegli anni una sorta di esame di coscienza ideologico). E, come se non bastasse, la sua natura controcorrente va oltre la politica: tratta anche bene le ragazze!
Le ampie discrepanze tra copione e testo non indeboliscono, in questo fortunato caso, il valore di una comparazione: inizio e fine coincidono, abbracciando fra loro una vicenda identica per atmosfera storica e caratterizzazione dei personaggi, ma diversa per chiare necessità di linguaggio e forma.
Pennacchi e Luchetti, scrittore e il regista, non condannano l’ideologia di partenza del loro protagonista, ma la “espongono” come un semplice dato di fatto dell’epoca. Ammettendo, quasi a priori, quanto sia giusta, e forse necessaria, una cieca passione in ciò che si crede e non lesinando alla vicenda, con costanza artistica certosina quando si parla di questi anni, un epilogo tragico.
Il fasciocomunista, romanzo di Antonio Pennacchi, 2003
Mio fratello è figlio unico, regia di Daniele Luchetti, 2007
A cura di Stefano Aldeni
la sottile linea rossa ::