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Il ponte dei suicidi

Il ponte dei suicidi

Un ponte è un mezzo di comunicazione che collega due punti distanti e permette un transito. Viadotti e cavalcavie sono nonluoghi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione. Sono strutture ingegneristiche che non hanno storia, ma sono la somma di centinaia di migliaia di storie personali. Fra questi, il Golden Gate al suo status di nonluogo assomma anche quello di icona, geografica e culturale. Un simbolo che richiama una mole impressionante di dati relativi a quella massa amorfa che gli psicologi definiscono “immaginario collettivo”. Dal mito del sogno americano alla capacità dell’uomo, tipicamente a stelle e strisce, di plasmare il mondo in funzione delle proprie esigenze, ma al contempo è un simbolo di libertà, di progresso e di apertura di una nazione e di un intero popolo.
La bellezza di un’opera tanto austera quanto indifferente al passaggio umano genera un misterioso magnetismo, trasformandosi in una vera e propria meta di pellegrinaggio per chi, non soltanto a San Francisco, medita il suicidio. In un’ipotetica classifica dei luoghi testimoni di gesti estremi, la porta dorata di San Francisco sarebbe certamente al primo posto. Il regista Eric Steel (cognome che paradossalmente significa “acciaio”) ha documentato, con videocamere sensibili al movimento, i ventiquattro tentativi di suicidio avvenuti nel corso del 2004. Un tuffo verso l’ignoto, un salto di 67 metri, una velocità di caduta di circa 197 km/h. Sono 6 secondi che separano la vita dalla morte, un estremo e irraccontabile ultimo nonluogo di transito.

In The bridge vengono raccolte le storie dei suicidi, sia quelli sventati sia quelli tragicamente riusciti. Steel infrange il tabù della morte al cinema, tanto vituperato da André Bazin (che lo definiva un’oscenità ontologica) e mostra gli attimi del trapasso attraverso l’immagine di videocamere indifferenti alla sofferenza altrui. Impossibile non credere che ci sia del cinismo alla base di un progetto tanto macabro, ma si percepisce che l’indagine documentaristica cerca una via per togliere l’infame sospetto.
La morte, non mostrabile sempre secondo Bazin, converge nelle parole di chi sopravvive, di coloro che passeggiano nervosamente lungo i corridoi del ponte, sporgendosi di tanto in tanto dai parapetti verso il vuoto. La forza di gravità diventa protagonista di una tensione di desiderio verso la morte. Una poesia visiva in cui canta l’upupa dei sepolcri foscoliani. Il termine ultimo è il pelo dell’acqua, punto di non ritorno in cui i sogni si infrangono e le vite si spezzano.

Le polemiche sono dietro l’angolo, le contestazioni in America sono state molto accese. Quanto è lecito al documentarista spingersi verso il tabù della morte? Non si può parlare di pornografia (intendendola come raffigurazione dell’illecito) quando le immagini ritraggono una morte in diretta, ritratta senza alcun intervento preventivo qualora ve ne fosse stata la possibilità? Siamo di fronte a una nuova frontiera di voyeurismo necrofilo?
Il suicidio è il gesto estremo di autodefinizione di se stessi, ma al tempo stesso è un atto pubblico, soprattutto quando viene prescelta una “location” tanto celebre quanto frequentata. Lo sguardo indiscreto del regista forse non è meno innocente di quello dello spettatore che assiste alla proiezione della pellicola, conscio del turbamento che spinge gli aspiranti suicidi. Facile lasciare trasportare il nostro discernimento da pregiudizi morale, etici e soprattutto religiosi. Steel affronta questo spinoso argomento con apparente distacco, mascherato da sensibile delicatezza, senza però sbilanciarsi sul valore delle terribili immagini, seppur splendide, del suo film. La forza di The bridge risiede proprio in questa ambiguità, poiché il pubblico deve necessariamente affrontare l’argomento di pancia (e non di testa) e cercare qualche risposta alle mille domande che “il ponte dei suicidi” gli susciterà.

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