hideout

cultura dell'immagine e della parola

New Berlin

New Berlin

Impegno e raffinatezza per un esordio da Oscar di Daniela Scotto

Non poteva essere più meritato il premio Oscar come miglior film straniero, consegnato quest’anno dall’Academy all’esordiente Florian Henckel von Donnersmarck, autore di un film che unisce la denuncia alla suspense tipica del thriller. Un groviglio di sospetti, giustificati o meno, avvolge la vita di un drammaturgo la cui poetica, apparentemente, non contrasta con la politica del Partito nella Berlino orientale. Degli artisti, però, non è mai possibile fidarsi: Dreyman (Sebastian Koch) viene messo sotto costante osservazione con il presupposto che la buona arte finisca sempre per avere risvolti sovversivi, magari anche involontari. La cospirazione in cui viene coinvolto lo scrittore, la stesura di un articolo sul numero di artisti suicidi sottaciuto dal Partito, è dunque un tranello ai suoi danni. Il capo dell’indagine, l’impassibile, ma solo esteriormente, compagno XX/7 (Ulrich Mühe), impara a disprezzare l’inganno ordito dai suoi superiori e sceglie di sabotare l’operazione. L’autoconsapevolezza della propria miseria, quella di una vita solitaria asservita a una dittatura mascherata, nasce dall’osservazione dell’Altro, un creativo, un artista, un pensatore.

Con il supporto poetico di Brecht e musicale di Mozart, numi tutelari della libertà di pensiero di ogni epoca, Le vite degli altri racconta dell’Arte come fonte di liberazione interiore, come luogo del Pensiero indipendente e scevro da ogni sudditanza ideologica. E lo fa tessendo una trama in cui si susseguono continui colpi di scena, che permette allo spettatore di entrare nel meccanismo in un equilibrio perfetto tra azione e riflessione. Il topos del cattivo redento, che rifiuta di perpetrare le infamanti logiche del Partito, si sviluppa in un contesto inedito fatto di richiami e rimandi a ricordi infantili, a emozioni percepite da lontano, a sensazioni che solo un “ricevitore” intelligente e capace è in grado di conservare e sviluppare.

L’ambientazione storica, quella della Berlino Est negli anni precedenti e immediatamente successivi al 1989 (anno della caduta del Muro di Berlino), è stato già sfiorato da tragicommedie di successo come Good bye Lenin (id., Wolfgang Becker, 2003). Von Donnersmarck non opta per un taglio ironico quanto per uno dichiaratamente di denuncia, pur osservando le follie della DDR come farebbe un appassionato del giallo e del thriller. La sua sensibilità mitiga dunque i toni, orchestrando una struttura completa, molto più che interessante, quanto piuttosto matura e appassionante come raramente ci si possa aspettare da un film d’esordio.

Vite parallele di Gianmarco Zanrè

Correva l’anno 1974, quando nelle sale fece capolino, in un respiro preso fra i primi due capitoli della saga di Corleone, La conversazione (The conversation, F. Ford Coppola, Usa, 1974), uno dei film manifesto della cosiddetta “New Hollywood”, che, dopo la crisi dei grandi studios, portò nuova linfa al cinema americano – e non solo -. Due anni dopo, seguendo un ideale percorso, Tutti gli uomini del presidente (All the president’s men, A. J. Papula, Usa, 1976) tracciò un nuovo standard per quello che poteva essere definito il genere “spionaggio”, per la prima volta portato dall’azione all’introspezione, grazie a una tecnica sopraffina e una riflessione morale. Von Donnersmarck, la sua sceneggiatura a orologeria e questa splendida opera prima potrebbero essere inseriti, per intensità e importanza, nel novero delle pellicole come quelle appena citate: questa volta, però, siamo in Germania, e sono passati più di trent’anni.

Lenin disse che se si fosse fermato ad ascoltare Beethoven non avrebbe potuto fare la rivoluzione: chissà se, effettivamente, le cose fossero andate in questo modo? Il capitano Wiesler, glaciale esecutore degli ordini dei suoi superiori, fedele servitore dello stato, braccio perfetto della disumana macchina della Stasi, compare ai nostri occhi come uno dei tanti aguzzini che hanno imperversato – e imperversano – nella storia umana, servitori di regimi e colori diversi, ma tutti terribilmente uguali a se stessi. Le vite degli altri, recita il titolo. Quelle che i Wiesler non hanno. Quelle che i Wiesler controllano. Quelle che i Wiesler distruggono. D’un tratto, in un respiro, Beethoven. E nel cuore dei Wiesler si apre una crepa. Se è vero che la storia, il mondo, l’uomo ci hanno preparato, e convinto, all’ineluttabilità degli occhi dei Wiesler, Von Donnersmarck offre un’alternativa, a noi, agli aguzzini, ai “senza vita”, a Lenin: e se la rivoluzione fosse possibile solo grazie a questa musica? Una rivoluzione interiore, sofferta, vissuta, nient’affatto lineare, ma inevitabile. La rivoluzione dell’uomo, la scelta di cambiare prospettiva e portare la propria vita in quelle degli altri, di guardarsi dentro e scoprire occhi che possano vedere, e non registrare.

L’intreccio elaborato dal regista/sceneggiatore si offre, superando le vicende del contesto in particolare, a un’interpretazione decisamente più ampia, dove il concetto stesso espresso dal titolo si ribalta nel corso della narrazione, e torna, quasi come in una composizione, una sonata, appunto. Le vite degli altri, recita il titolo. Quelle che i Wiesler non hanno, invidiano, distruggono. Le vite degli altri. Quelle che, d’un tratto, si proteggono. Perché la nostra è specchiata nelle loro. Perché le une dipendono dalle altre. A volte, ciò che si perde, o si acquista, non è evidente, e in silenzio attende di uscire, di essere scoperto. In silenzio come Christa-Maria riconosce Wiesler, in silenzio come Dreyman torna alla scrittura grazie, con e per Wiesler. In silenzio come Wiesler acquista il libro senza avere paura di dire che è per lui. Le vite degli altri, recita il titolo. Basta un respiro, una musica, una scelta. E Wiesler si accorge di essere un uomo. Le vite degli altri, ora, non sono così lontane.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»