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cultura dell'immagine e della parola

Festival del Cinema Africano

Rachid Amrani in <i>Rome Plutot Que Vous</i>” />Ore 18.30 passaggio Gnomo. Aria gelida. Entro di corsa nel bar del cinema, mentre la serranda scende dolcemente. 5 euro di biglietto. M’immergo con la mia compagna d’avventure nella sala vuota e fredda. Hanno cambiato il film in programmazione. Volevamo vedere <em>Red Mistake</em> di Teshome Kebede Theodros (Etiopia, 2006) e, invece, viene proiettato <em>Rome Plutot Que Vous</em>, di Tariq Teguia (Algeria, 2006).<br />
<strong>Inizia il film. Non so bene cosa aspettarmi. Non ho mai visto un film algerino. </strong>Le scene sono lunghe e povere. Scarne di parole e di movimento. Si dipinge una realtà rumorosa e disperata. Case sfatte e stanche si stagliano sullo sfondo; il Sole caldo ed accecante della città africana frusta gli uomini che vi camminano sopra.<br />
Lunghe inquadrature indugiano su semplici gesti quotidiani: la preparazione del caffè, la pulizia di un corridoio, un viaggio in macchina. Il tutto dilatato ed esasperato nella sua banalità, nel suo scorrere inesorabile e semplice. </p>
<p>Non manca qualche spunto originale. La ricerca della libertà e di un mondo sognato: l’Europa. Milioni di parabole televisive sono rivolte verso la terra promessa dove anche Kamel vuole tornare. E risulta tragicamente vera l’evidenza alla quale lo pone la sua ragazza Zina: lui vuole partire comunque, pagherà, anche se non è sicuro di arrivare. La speranza vale di più della realizzazione del sogno. <strong>Perché il cuore di un uomo ha il bisogno di sperare, di affrancarsi da una condizione di subalternità, per ritrovare la libertà perduta. </strong><br />
Ma quel mondo non è reale, è solo sognato. È un mondo fatto di Veline e di lussi impropri, che riluccicano bene sullo schermo del televisore, ma che rendono sempre più schiavi di sogni le persone che vi credono. </p>
<p>Sebbene l’opportunità di riflettere sia preziosa, la realizzazione del film lascia alquanto a desiderare. Forse siamo noi che non siamo capaci di capirne il linguaggio. Ma anche questa riflessione stride, c’è tanta Francia in questo film, a partire da alcune parole dei protagonisti, per finire al luogo dove lo stesso regista ha vissuto per molti anni. Sarà forse un linguaggio curato appositamente per il pubblico dei Festival? O forse solo un modo diverso di fare cinema? Chissà, nessuno dell’organizzazione ce lo ha spiegato.<br />
E così, abbandonati un po’ a noi stessi, torniamo a casa, con la scomoda sensazione di non aver ben capito tutto.</p>
				<p class= A cura di Alice Dutto
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