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L’amore che non sopporta (più)

L'amore che non sopporta (più)

La famiglia si mette in mostra, si spoglia degli abiti più comuni, conosciuti e visti e ne indossa di nuovi. Entra nei panni di un luogo, una casa che è per lo più una fattoria. Mura, finestre, tavoli e divani che parlano di una vita vera che sembra funzionare alla perfezione anche se manca qualcosa. Qualcuno. Un meccanismo fin troppo calibrato, fin troppo calcolato, nel quale, alla fine, nessuno sta comodo. Una casa che respira, racconta, ricorda e punisce. Addirittura una casa che divide, che si intromette nelle vicende casalinghe, che mette il dito nelle piaghe delle relazioni, che cresce come zizzania. E come nella parabola evangelica del buon grano e della zizzania si raccontava dell’intreccio tra il bene dell’amore e il male che vorrebbe soffocarlo, pure qui si assiste alla lotta tra bene e male. Tra unione e divisione. Come accadeva nella parabola, pure qui il concetto chiave ruota intorno al valore della pazienza (nel senso di attesa) e della sopportazione per amore. Il lento declino relazionale segue ritmicamente la “fine” dell’esistenza della casa e della famiglia. Relazioni corrose, sfiancate, stanche, sgonfie come divani vecchi. Sguardi rotti, proprio come vetri. La tavola, che fin dall’inizio è un’icona, un simbolo dell’unione famigliare, diventa altro. Addirittura nell’ultima cena non c’è più. E la tragedia arriva ovunque. Nasce dentro e si consuma fuori, anche se lo sguardo di chi è estraneo (lo spettatore) non partecipa.

Lafosse racconta gli interni e gli esterni di una famiglia giunta al capolinea di un periodo cruciale della propria esistenza. Il suo racconto è spiazante ma assolutamente coerente, preciso, pulito, rigoroso e dignitosamente vero. Questo urlo di rabbia è uno splendido esempio di cinema finzione che racconta la verità. Non è una verità inseguita come nel cinema dei Dardenne, che fanno della ripresa a mano un loro carattere distintivo, è, più che altro, una verità ricostruita. Inquadrature sempre pensate, sempre ordinate, geometricamente idealizzate. Dalla piccola porzione filmica, che prova a raccontare l’ordine, si passa alla nuda realtà, intima, limitata della famiglia che è vittima, complice e killer di sè stessa. Lafosse mantiene pure una rispettosa distanza dai suoi personaggi, nonostante riesca a ricalcarne i tratti psicologici e comportamentali.

Un film che racconta la rabbia, le debolezze, i fallimenti e i rapporti, senza nascondere limiti e ossessioni, senza schierarsi troppo per dare la ragione. Un film che forse racconta di una rassegnazione. O anche di una delusione rassegnata. Comunque sia, un film in cui la zizzania seminata dal tempo, brucia lo stomaco.

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