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Faccia a faccia

Faccia a faccia

Ogni volta che guardi l’abisso…
Negli occhi del giovane Nicholas, messo di fronte alle indubbie, pur se non completamente consapevoli, responsabilità nei terribili atti perpetrati da Amin, c’è una luce confusa, tremolante come quella di una candela esposta al vento: lo stesso dittatore chiede al giovane medico – e confidente – se il suo scopo da uomo bianco fosse stato quello di andare in Africa a giocare con gli indigeni. In questi sguardi, profondi e sconvolti, c’è tutto il meglio di questa prima fatica in forma di fiction di Kevin MacDonald, documentarista di belle speranze salito alla ribalta della cronaca con l’ottimo La morte sospesa (Touching the void, 2004). E’ il confronto, diretto e senza riserve, di due generazioni, di un medico e un militare, di un uomo del popolo che non è mai stato povero e un dittatore che, forse, è divenuto mostro per povertà. E soprattutto, tra la cultura europea, prevalentemente “bianca”, e il cuore dell’Africa “nera”.
Un confronto fatto di complicità e silenzi, amicizia e sdegno, sfruttamento e sanguinose atrocità. La punta di un iceberg che, purtroppo, appare quasi impossibile fotografare con il dovuto equilibrio tra cronaca e intensità in un lungometraggio come questo, limitato, in parte, da una sceneggiatura non sempre impeccabile e da un istrionismo forse eccessivo del pur straordinario attore protagonista. Forest Whitaker è autore, in questo caso, di una performance sì impressionante, ma troppo sopra le righe per superare altre prove, a parere di chi scrive, sicuramente più meritevoli di essere ricordate, da Bird (id., Clint Eastwood, Usa, 1988) a La moglie del soldato (The crying game, N. Jordan, 1992).

…l’abisso guarda te
Amin, uomo acclamato dal popolo ugandese come salvatore della patria e assoluto dominatore, nonché dittatore, dal 1971 al 1979 del succitato stato africano, invade la pellicola dalla sua prima apparizione, portando fuori campo uno sguardo che, più che a una denuncia, mette lo spettatore di fronte alla realtà della miseria umana, dalla freddezza dei diplomatici inglesi, alla cecità del giovane Nicholas, dall’odio degli uomini del dittatore alla follia dello stesso, dalla fuga di un uomo bianco di ritorno alle certezze di una casa ai colori caldi e sfavillanti della terra in cui batte il cuore della Storia umana. Buona l’idea del regista di mescolare elementi reali a una vicenda di fiction, supportata da un ottimo lavoro al montaggio e alla fotografia, che compensa i già segnalati limiti dello script e una colonna sonora piuttosto stereotipata.
Jean Dominique, fondatore di Radio Haiti immortalato da Jonathan Demme nello splendido The agronomist (id., 2003), dichiarò che raccontando ai contadini della sua terra dei dittatori presenti in tutto il mondo essi avrebbero potuto, solidarizzando idealmente con gli altri popoli, osservare, nella somiglianza dei loro carnefici, che mai sarebbero stati soli, trovando la forza per costruire un futuro migliore. Con tutti i loro limiti, pellicole come questa andrebbero lette in un ottica futura, in modo che anche l’audience, come il regista che, film dopo film, imparerà – almeno questa è la nostra speranza – a gestire meglio il suo linguaggio di narratore, possa non dimenticare che l’abisso umano si cela negli occhi che a volte guardiamo, e che la prima rivoluzione non passa dai fucili, ma sempre, e soprattutto, dalle nostre coscienze.
I Nicholas della storia lo hanno dovuto imparare sulla propria pelle: speriamo che il futuro ci riservi di non avere bisogno di un altro Amin per ricordarcene.

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