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cultura dell'immagine e della parola

Mtv trasmette The Office

Le telecamere dovrebbero essere due, entrambe fisse. La scena, d’altra parte, è quella classica del dialogo tra impiegati seduti ai lati opposti di una scrivania: botta e risposta, campo e controcampo, secondo uno schema tipico del linguaggio cinematografico.
Eppure qualcosa ci insospettisce, creando disorientamento. Forse è il ritmo del discorso, poco televisivo e quasi “involuto”, con frasi che si accavallano per poi restare sospese. O forse è l’inspiegabile rollio dell’immagine, che denuncia una camera a mano dove ci aspetteremmo inquadrature rigorosamente statiche. I personaggi, dal canto loro, non ci aiutano a spostare l’ago della bilancia, in bilico tra la messa in scena e l’iperrealismo. Il capoufficio sbruffone, la segretaria lasciva, l’impiegato frustrato e quello nevrotico: burattini di carne sinistramente comici, macchiette che in fondo ci assomigliano parecchio. Quando ti convinci che stanno recitando, ecco che te li ritrovi davanti alla telecamera a spiegare i loro stati d’animo, esattamente come farebbero dei naufraghi sull’Isola dei famosi.
Realtà o finzione? Reality o fiction? Entrambe le cose, o forse nessuna delle due.
Perché stiamo parlando di The Office (Mtv, giovedì ore 22), probabilmente il più alto esempio di falso documentario trasmesso sui teleschermi italiani (nel 2002 c’è stato Fascisti su Marte, ma con un linguaggio e degli intenti ben diversi).
Il format, scritto nel 2001 d Ricky Gervais e Steven Merchant per la Bbc, è semplice quanto intrigante: una troupe televisiva segue da vicino le giornate lavorative di un gruppo di colletti bianchi all’interno di un’azienda in crisi e a rischio di chiusura. Naturalmente gli “osservati” sono persone assolutamente sui generis: dai loro tic e dalle loro ipocrisie si dipanano, puntata dopo puntata, intrecci a base di cattiveria e umorismo assolutamente “british”.

Senza soffermarci troppo sull’assoluta godibilità del prodotto (alla quale contribuisce, tra l’altro, un doppiaggio italiano magistrale), è interessante rilevare come The Office si inserisca organicamente in quella che è la “mappa ideale” delle tendenze televisive di questi primi anni del millennio.
Uno scenario formatosi a partire dalla distinzione tra “realtà” e “finzione”, tradotte originariamente nei due linguaggi opposti del reality-show e della fiction. Una dicotomia storica, risalente agli sceneggiati della paleotelevisione e alle Candid Camera di Buster Keaton. Un’opposizione che nel passaggio dal Novecento al Duemila ha visto dapprima i suoi due poli focalizzare le proprie caratteristiche peculiari (attraverso il passaggio epocale del primo Grande Fratello, che ha fissato la grammatica del reality moderno e al contempo ha costretto la fiction a mettersi in discussione), per poi aprirsi alla contaminazione reciproca, sia sul piano formale (la sitcom, ad esempio, utilizza sempre più spesso la “falsa telecamera nascosta”, basti pensare a Camera Café) che sul piano concettuale (è appunto il caso di The Office, che trasforma il linguaggio del reality in un elemento di fiction).[img4]
Televisivamente parlando, la realtà non è mai stata dominio esclusivo del reality. Grazie a queste ibridazioni, oggi anche la finzione non è più dominio esclusivo e fiction.
E il concept di The Office non è altro che il gemello innocuo della sublime beffa messa in onda alcuni giorni fa dalla televisione pubblica del Belgio, quando la redazione giornalistica ha descritto con i toni dello scoop il falso annuncio della secessione delle Fiandre. Una bufala preannunciata per alcuni secondi da una scritta in sovrimpressione assolutamente emblematica della direzione intrapresa dalla Tv contemporanea: «Questa, forse, non è una fiction».

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