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Intervista a Francesca Comencini

Tre anni dopo Mi piace lavorare – Mobbing, Francesca Comencini torna con un nuovo affresco delle brutture della nostra penisola. Ne abbiamo parlato con lei.

Il mondo del lavoro, le relazioni professionali ed umane fortemente condizionate dal guadagno e dal denaro. Dal precedente Mi piace lavorare – Mobbing all’attuale A casa nostra c’è sempre il condizionamento del lavoro al centro della tua attenzione. E’ una riflessione necessaria, inevitabile nella società italiana e globale?

A casa nostra è un film che non parla, come Mi piace lavorare – Mobbing, del mondo del lavoro in modo centrale. Ci sono però dei punti in comune tra i due film e l’uno è un po’ il frutto dell’altro: la domanda dalla quale partono entrambi è “qual è il valore della vita in un mondo in cui il profitto è l’unico motore?”. Se in Mobbing la vita dell’impiegata Anna veniva scientificamente fatta a pezzi perché l’azienda potesse andare avanti, in questo film ho tentato di raccontare un intreccio di tante vite in una grande città italiana di oggi, dove il denaro è diventato la cosa più importante. Cosa rimane di quelle vite in questa situazione? Mi sembra che la domanda che sottende ai due film sia necessaria e inevitabile, perchè forse mai nella storia degli uomini la pura e semplice ricerca di guadagno, senza contropoteri, come possono essere stati la religione, la politica, anche solo l’ambizione personale, l’aspirazione a conoscere, a saper fare qualcosa, a produrre miglioramenti, mai il semplice e solo desiderio di guadagno è stato motore delle azioni degli uomini come in questo momento. Mi sembra una situazione alquanto spaventosa e alla quale è importante reagire, perchè non auguro né a noi né ai nostri figli di ritrovarsi in un mondo simile.

Le varie storie s’intrecciano internamente tra loro come a comporre una narrazione circolare dalla quale entrano ed escono i personaggi principali. Si tratta di una scelta linguistica che procede per frammenti, che sceglie la coralità e abolisce le gerarchie. Molto moderna, anzi postmoderna. Come succede nel premio Oscar Crash di Paul Haggis. Solo una casuale coincidenza o una sensibilità che coglie lo zeitgeist ovvero lo spirito dei tempi?

La scelta narrativa, operata da Franco Bernini e da me, di raccontare una storia circolare e frammentaria parte dal tema: il denaro. Il denaro circola, unisce e divide ma comunque circola tra le persone. Il film Crash, che ho amato, è uscito quando la sceneggiatura era già scritta. Forse è un modo di raccontare moderno perchè viviamo in un mondo in cui le identità si mischiano, un mondo confuso e complesso, difficile ma anche per questo affascinante.

I personaggi sono tagliati a misura dell’ambiente e soprattutto della città. Perché li hai voluti così decisamente milanesi? Potrebbero mai essere stati romani o torinesi?

Ho scelto Milano per girare questo film perchè, in Italia, è in questa città che si trovano i centri finanziari, le grandi banche, la Borsa. E anche perchè Milano è una città protagonista del nostro paese, ma invisibile, silenziosa, misteriosa in fondo. Mi piace molto e ne sono affascinata. Ma la storia che racconto potrebbe svolgersi a Parigi, a Londra, a Berlino… in qualunque grande città nella quale il denaro sia cosi importante e centrale.

La fotografia, in esterni livida e raffreddata come al suo solito, in interni spesso diventa calda, carica e luminescente. C’è in questo una volontà precisa, una maniera di disegnare gli ambienti in cui si muovono ambiguamente i personaggi?

La fotografia di Luca Bigazzi in questo film risponde alla doppia anima del film stesso: una città fredda, un sistema spietato, una constatazione amara, e delle persone singole piene di umanità, che tentato di continuare a credere e a costruire speranza. L’altra scelta importante che presiede la forma del film è quella di fare tutto il film con la macchina tenuta a mano, però molto ferma.

Le tue precedenti produzioni erano leggere, agili e veloci, se si può dire a budget ridotto. [img4]A casa nostra poggia su altre basi, altri mezzi, altre scelte tecniche ed espressive. E’ una via di non ritorno?

I miei film precedenti erano a piccolissimo budget, questo film è più caro, e anche più costruito, più corposo, ma non è assolutamente una scelta di non ritorno. Amo fare film “piccoli” e amo lavorare con piccole troupe. Amo filmare l’imprevisto, avere la libertà di cambiare, di cogliere al volo le situazioni, le diversità, ciò che gli attori hanno da proporre anche se non era scritto. Per fare questo bisogna essere leggeri, per me è una necessità assoluta, e comunque anche in questo film è stato così, anche se un po’ meno che in Mobbing, che era davvero estremo in questo senso. Poi mi piace molto fare documentari, anche questa per me è una necessità.

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