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Case diverse

Case diverse

Anche casa nostra di Letizia della Luna ********

Proviene dal documentario, Francesca Comencini: ha fatto dell’indagine sociale il suo punto di vista prediletto. Infiltrandosi tra i meandri della società italiana contemporanea, ne svela anfratti oscuri, luoghi che spesso si preferisce non vedere, personaggi odiosi, ma più che mai attuali. E così, dopo aver documentato l’omicidio avvenuto durante il G8 di Genova nel 2001 (Carlo Giuliani, ragazzo), dopo aver pedinato una donna alle prese con la sopravvivenza quotidiana e il fenomeno del mobbing (Mi piace lavorare – Mobbing), si è messa, con A casa nostra, sulle orme di una parte della Milano di oggi. E così la città, sfavillante e grigia, modaiola e squallida, si è fatta emblema dell’Italietta che siamo, di quella Repubblica delle banane che sta facendo del denaro a tutti i costi e con qualsiasi mezzo stile e meta di vita. Non è un attacco alla città: poteva essere Roma, o forse Firenze o forse anche un piccolo agglomerato di provincia. Ma è Milano la capitale dell’economia italiana, la metropoli internazionale dove girano soldi, modelle, grandi affari.

Qui la regista firma il suo film più corale, intreccia storie umane incastrandole come in un puzzle che non si sa come alla fine trova tutti i pezzi al posto giusto. Con la camera che impietosamente si avvicina e si allontana dai personaggi, ritraendoli nei loro momenti più vergognosi e distaccatamente accompagnandoli nelle loro piccole faccende verso la scalata a un potere che spesso altro non è se non avidità e vanagloria. La Comencini documenta, registra: e anche quando sembra inciampare nella tentazione di cedere leggermente al melodramma si riprende sempre, come all’ultimo momento, riportando la pellicola su un tono di giusta asciuttezza e rigore. Non c’è giudizio, non c’è condanna. L’Italia è anche questo: le puttane schiavizzate, l’umile lavoratore novello sposo che si fa intrappolare dall’illusione del facile ma ambiguo denaro, il grande finanziere corrotto e scaltro. Quanto mai si può leggere una simpatia, un’antipatia verso quello o l’altro personaggio: ma, nel complesso, il film rimane un ritratto. Un ritratto parziale, perché sicuramente l’Italia è anche altro. Ma ogni film, sia fiction o documentario, è un punto di vista, la scelta personale del regista di rappresentare un determinato luogo in un determinato momento.

Coadiuvata da un eccellente cast di attori (da Luca Zingaretti a Valeria Golino passando per Laura Chiatti), la Comencini, ancora una volta, invece di scegliere il comodo ruolo di semplice narratrice (nonché figlia d’arte), sceglie la strada più impervia, quella di raccontare una storia che può apparire fastidiosa, invisa ai più. Ma visto che la televisione non riesce a mostrar altro che veline e allegre famiglie del Mulino Bianco, l’arduo compito se lo deve pur prendere qualcuno.

Sindrome Magnolia di Raffaele Elia ****

Dopo le recenti e originali opere di Tornatore, Crialese e Sorrentino, il cinema italiano ritorna alla sua mediocrità. Anche “l’impegnata” Comencini cede alla tentazione di quella che potrebbe essere definita la “Sindrome Magnolia”, dal titolo dell’importante film di Paul Thomas Anderson del 1999. L’idea, cioè, che per rendere interessante una storia siano necessari più episodi intrecciati tra loro e montati mescolandone i singoli frammenti per poi ricomporre il “puzzle” in un’unica scena finale. Questa struttura narrativa, se non sorretta da una sceneggiatura forte come, ad esempio, quella scritta da Arriaga per Babel (Alejandro G. Inarritu, 2006) o dallo stesso Inarritu per Amore perros (2000), è soggetta al rischio di risolversi in una sequenza di coincidenze banali e forzate. A casa nostra si sviluppa in una superficiale e inconcludente concatenazione di eventi dove gli intrecci diventano espedienti gratuiti e gli spunti di critica sociale si trasformano in insopportabili melodrammi.

In questo contesto, anche quando i ruoli sono appropriati (vedi Zingaretti e Storti), la sceneggiatura e i dialoghi risultano inadeguati o inverosimili nella scena in cui il capitano della finanza entra in casa di un sospettato per tenere un comizio sulla moralità. A peggiorare tali sensazioni l’immancabile e retorica contrapposizione di aborti e nascite, la scelta “facile” dell’ospedale come luogo d’incontro dei diversi protagonisti ed una reiterata impressione di “già visto” di cui l’episodio con Battiston (Vesna va veloce, Carlo Mazzacurati, 1996) e quello in cui Argentero diventa sbrigativamente un prestanome (Fantozzi il ritorno, Neri Parenti, 1996), sono solo due esempi.

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