I giardini della vecchiaia
“Per me il cinema è parlare agli altri, ma per farlo debbo essere ben sicuro di quello che dico e di come lo dico. A costo, ogni volta, di aspettare dieci anni”. È probabilmente per questo che Iosseliani, pur avendo iniziato la sua carriera di regista all’inizio degli anni sessanta, non ha più di una decina di titoli nella sua filmografia. È comunque vero che, alla fine, quando ogni suo lavoro è terminato, ha davvero il gusto della completezza, dell’opera d’arte tout court, in cui niente è lasciato al caso: ogni minimo dettaglio viene a comporre un mosaico perfetto, ricco di colori diversi, di sfumature da cogliere nella loro vivida partecipazione. Personaggio eclettico, diplomato in regia ma anche in composizione, pianoforte e direzione d’orchestra (ma anche matematico e poeta), infarcisce i suoi film di tutta la sua cultura, senza farne sfoggio supponente, ma usandola come mezzo per tornare alle origini, per dire qualcosa nel modo più semplice possibile.
E così risulta anche la sua ultima fatica Giardini in autunno, leggiadro ritratto di un microcosmo parigino, prima alle prese con il potere, il successo e il denaro e poi con la quotidianità, l’immigrazione, i piccoli piaceri della vita. Metafora dell’avidità del potere, del tempo andato che non ritorna, della riscoperta dei veri valori della vita, il film tratteggia, con ironia e atmosfere sognanti, un’umanità varia, alle prese con rimpianti, errori e speranze. Di primo impatto può sembrare che Iosseliani abbia voluto dire troppo, abbia ecceduto nell’inserire troppe tematiche e situazioni. Ogni tassello è però talmente bene incastrato con quello successivo che tutto torna, che l’ingranaggio non s’inceppa mai. E quindi, nelle due ore del film, niente noia, niente lungaggini, ma solo un agrodolce percorso nei meandri della vita. Come sempre nei film del regista punto focale è la gente, semplicemente osservata e mai giudicata, la gente capace di buone come di cattive azioni. Non ci sono eroi, non ci sono personaggi buoni né negativi, ci sono persone che compiono un percorso di vita, che poi, volenti o nolenti, magari sono costrette a cambiare. L’individuo non è mai colpevole: colpevole è la politica, il sistema che ha fatto del denaro quel dio che troppo spesso sembra essere in grado di determinare azioni e reazioni.
Senza mai arrivare al bizantinismo calligrafico, Iosseliani disegna un quadro perfetto, simbolo estremo della sua poetica. “La felicità non si trova, ma la speranza di trovarla nutre l’umanità”, ha detto una volta il regista: e anche in questo film non c’è felicità, non c’è spensieratezza o serenità; c’è però un umorismo stralunato, un onirismo e una senso del surreale che sembrano quasi voler essere catartici o quanto meno esorcizzanti. Una commedia della vita.
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