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Una autentica truffa

Una autentica truffa

Uno scrittore di medio livello frustrato ma convinto di avere nella penna il prossimo best seller; un amico fedele ma puntiglioso ai limiti del maniacale; un fantamiliardario onnipresente ma invisibile. Cosa può nascere dal connubio di questi tre insoliti fattori? È quanto prova a scoprire Lasse Hallström, mettendo in scena una commedia frizzante e piacevole come non se ne vedevano da tempo, capace di divertire e al tempo stesso di raccontare una vicenda vera con la necessaria fedeltà storica.

In L’imbroglio – The hoax non manca nulla: ai momenti spassosi si alternano quelli di riflessione sentimentale, alla suspense da thriller il dramma del fallimento. Tutto però è trattato con equilibrio, e il film scorre piacevolmente senza cadere nell’eccessiva caratterizzazione di genere; persino quando Hallström rende omaggio a A beautiful mind (id., Ron Howard, 2001), trattando delle allucinazioni di Clifford Irving (Richard Gere), lo fa con ironica malizia, rendendo buffa anziché drammatica la scena del dialogo tra Irving e il suo amico immaginario, e facendola chiudere addirittura da un «Grazie!» che riporta tutto sul piano della commedia.
La scelta del cast è perfetta, come dimostra la strana coppia Richard Gere – Alfred Molina, affiatati e divertenti come difficilmente si sarebbe potuto immaginare. I due arzilli ultracinquantenni si divertono visibilmente sul set, e nelle scene corali riescono a facilitare il compito agli altri attori, trasmettendo la loro evidente marcia in più. Gere è in una forma strepitosa, perfettamente a suo agio nel ruolo di trasformista sempre pronto a reinventarsi, e perfino la non troppo felice (ed evidente) tinta di capelli non riesce a scalfire minimamente il suo fascino. Alfred Molina è in stato di grazia e ogni volta che compare sulla scena il pubblico si aspetta, e ottiene, qualcosa di divertente. Gli altri attori si limitano, come già detto, a offrire una valida controparte ai due protagonisti, mentre una menzione speciale va fatta per Howard Hughes, presenza incombente per tutta la durata del film, che si delinea grazie a qualche foto, un paio di registrazioni ma soprattutto grazie ai ritratti che ne fanno i suoi (pseudo)biografi. Su tutti, la reiterata mistificazione della prugna secca merita di essere ricordata.

A sottolineare tutte le sequenze di maggiore divertimento, la voce graffiante di Tom Fogerty e le chitarre dei Creedence, mentre la chiusura è affidata a You can’t always get what you want dei Rolling Stones. Unica nota negativa, la leggera perdita di ritmo che rende la seconda parte del film non all’altezza della prima, risultando un po’ troppo dilungata.

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